«Non è ancora guerra fredda Ma il confronto tra i due presidenti porta solo in quella direzione»
Ian Bremmer: «Tanti i rischi, a partire da Taiwan. E anche il 5G»
«N on siamo ancora a una vera guerra fredda tra Usa e Cina», dice il politologo Ian Bremmer, fondatore e capo di Eurasia, «ma la direzione è quella. È cominciato tutto un anno fa con la guerra fredda tecnologica e da allora l’escalation è andata avanti senza freni. Quello che accade a Hong Kong è gravissimo. E non c’è modo di rasserenare l’orizzonte perché ambedue i leader, Donald Trump e Xi Jinping hanno un’anima nazionalista e in questo momento si sentono spinti a seguire i loro istinti: in difficoltà all’interno per la crisi economica post-pandemia, sono convinti che opporsi con durezza alla superpotenza avversaria li renda più popolari. Che paghi politicamente».
Il suo ragionamento mi è chiaro per quanto riguarda Trump che fra 5 mesi ha le elezioni presidenziali. Meno per Xi Jinping.
«Trump è alle prese con 40 milioni di americani che hanno perso il lavoro. Ha bisogno di un capro espiatorio e la Cina è quello ideale. Anche perché Pechino ha colpe gravi
Trump è alle prese con 40 milioni di americani disoccupati. Ha bisogno di un capro espiatorio e la Cina è quello ideale
per come ha cercato di nascondere, all’inizio, l’epidemia. In Cina non si vota, ma Xi ha comunque la necessità di proiettare un’immagine di forza dopo i passi falsi del coronavirus. Controlla il partito comunista, è vero, ma deve comunque essere riconfermato alla sua guida nel 2022».
Teme sviluppi drammatici nell’arroventata vigilia elettorale? Di recente lei ha scritto che, dopo Hong Kong, i rischi aumentano anche per Taiwan.
«Certo. Di recente il primo ministro cinese ha ripetuto che il suo Paese intende integrare Taiwan all’interno dello Stato. Lo dicono spesso e Li Keqiang ha usato la formula di rito, ma stavolta ha omesso una parola, peaceful: in modo pacifico. Gli Stati Uniti stanno vendendo armi a questo Paese e stanno dando spessore diplomatico ai rapporti col governo di Taipei, non riconosciuto internazionalmente. Cose che irritano Pechino, ma il vero versante critico è la tecnologia. Washington vuole penalizzare Huawei, il gigante digitale cinese. È leader mondiale anche nelle reti 5G ma ha un punto debole: dipende dai semiconduttori prodotti dagli Usa e da altri Paesi asiatici. L’america ha bloccato i suoi e ha convinto gli alleati a fare altrettanto. E proprio Taiwan era il maggior fornitore di Huawei».
Le nuvole sono arrivate un anno fa dalla tecnologia. Avverrà qui la rottura?
«È cominciato con Pechino che bloccava investimenti di imprese Usa che non accettavano più di cedere la loro tecnologia pur di entrare nel mercato cinese, mentre alla Cina non è stato più consentito di acquistare imprese americane hi-tech. Adesso si combatte a tutto campo, da Hong Kong alle università, ma Huawei rimane il filo conduttore. Comunque, ripeto, siamo su un piano inclinato: andrà sempre peggio, ma non prevedo rotture improvvise, brutali da qui alle presidenziali».
Sul commercio il dialogo continua. È uno spiraglio?
«È l’unico filo di dialogo rimasto. I cinesi stanno rispettando gli accordi: hanno fatto le riforme finanziarie promesse e stanno acquistando prodotti e derrate Usa, anche se non nella misura concordata. Ma è comprensibile, visto l’impatto della pandemia. La Cina, che ha da perdere di più sul piano economico, cerca di tenere aperto questo canale. Trump è più combattuto: anche lui è sensibile alle ragioni dell’economia, ma teme di apparire ai suoi elettori un presidente dai due volti: demonizza la Cina e poi fa affari sottobanco con Pechino».
Trump usa la Cina anche per attaccare Biden, presentato come un «cocco» di Pechino. Ma anche il candidato dem è duro col gigante asiatico. Cosa accadrà se andrà lui alla Casa Bianca?
«L’ostilità nei confronti della Cina è ormai un tema che negli Usa unisce destra e sinistra. Anche Biden, ormai, è un falco. Se diventerà presidente lo scontro si sposterà sui temi che interessano meno a Trump come i diritti umani. E, poi, l’espansionismo di Pechino nel Mar cinese meridionale. Ma la divaricazione rimarrà: sono stati dati colpi troppo gravi alla globalizzazione, mentre la disoccupazione post Covid spinge il governo Usa a condizionare gli aiuti alle imprese al loro rimpatrio delle produzioni trasferite all’estero, soprattutto in Cina. Sarà così anche con Biden. Cambieranno due cose: i rapporti diplomatici tra le due potenze, per quanto deteriorati, verranno messi su binari più certi e stabili, come fu nell’era Obama. E Washington cercherà di contenere la Cina anche coordinandosi coi suoi alleati, cosa che Trump non ha fatto».
In Cina non si vota, ma Xi ha comunque la necessità di proiettare un’immagine di forza dopo i passi falsi del coronavirus