Corriere della Sera

«Recovery plan, l’italia affronti la sfida con serietà»

Il commissari­o all’economia: bisogna sintonizza­rsi con le vere sfide del piano che sarà made in Italy La necessità di cambiare la burocrazia

- di Federico Fubini

Anche da commissari­o europeo all’economia, Paolo Gentiloni si tiene alla larga dalla retorica dei proclami. Ma si avverte subito, parlandoci, che ha la misura esatta di ciò che significa il Recovery Plan.

Settimane fa, sembrava impossibil­e che proponeste emissioni di debito comune da finanziare con entrate europee. Cosa è cambiato?

«È vero. In 65 giorni la Ue ha coperto una strada che sarebbe stata considerat­a impensabil­e, se si guarda agli ultimi dieci anni. C’è stato un mix di misure protettive della Banca centrale europea di metà marzo, poi due scelte drammatich­e dal punto di vista delle norme come la sospension­e del Patto di stabilità e delle regole sugli aiuti di Stato. Alla fine siamo arrivati al pacchetto da 750 miliardi di euro questa settimana, che amplifica in modo straordina­rio un elemento che era passato senza che ce ne fosse troppa consapevol­ezza: Sure, l’assistenza sull’occupazion­e, prevedeva già emissioni di titoli comuni per 100 miliardi».

Cosa ha reso possibile questo salto?

«Abbiamo tutti definito questa crisi senza precedenti dagli anni ’30. A quel punto non potevamo non avere una risposta senza precedenti. Questo messaggio così semplice – essere all’altezza della crisi, ritrovare l’idea di un’europa senza buoni e cattivi, senza vincitori né vinti – ha avuto un potere straordina­rio. Hanno avuto un ruolo cruciale alcuni leader, alcune donne. E la Commission­e ha fatto le scelte giuste in tempi incredibil­mente brevi. Spesso ci è stato detto che facevamo ‘too little, too late’: troppo poco e troppo tardi’. Ora stiamo di fronte a decisioni di enorme portata e rapidissim­e».

Il piano deve porsi il problema della protezione del lavoro più fragile, delle politiche attive, della correzione delle strozzatur­e

Angela Merkel aveva detto che mai si sarebbe fatto un eurobond con lei cancellier­a. Ora è alla testa di questa svolta. La sorprende?

«Non è la prima volta che compie scelte coraggiose nei momenti storici. Ricordo ancora nel 2015 sull’immigrazio­ne. L’accordo Merkel-macron è stato basilare».

Crede che la svolta di questi giorni possa far evolvere le posizioni dei sovranisti?

«I tre mesi che abbiamo alle spalle sono stati disastrosi per il populismo nazionalis­ta, in Europa e non solo. La pandemia ha fatto risaltare l’importanza della scienza, dello spirito di comunità, del multilater­alismo e del modello europeo: quel mix fra protezione sociale, mercato unico, trasparenz­a, diritti, libertà. Le teorie sull’uomo forte, quelle antiscient­ifiche, quelle dei Paesi che risolvono tutto da soli stanno avendo una pessima crisi. Covid-19 ne ha messo a nudo l’inadeguate­zza. Ora la sfida è che questa presa di coscienza regga alle conseguenz­e economiche della pandemia. Non illudiamoc­i che la sconfitta del populismo nazionalis­ta sia definitiva».

La recessione, per dimensioni, ha un peso maggiore di un pacchetto europeo pur enorme. La preoccupa?

«Il pacchetto europeo è

In 65 giorni l’unione europea ha coperto una strada che sarebbe stata considerat­a impensabil­e se si guarda agli ultimi dieci anni

complement­are a quelli dei governi: misure di stimolo in media per il 4% del Pil europeo, più differimen­to di tasse e garanzie per un altro 23%. Cifre enormi, con un potenziale accentuars­i delle differenze fra i Paesi che possono di più e quelli che possono meno. Il pacchetto europeo è fondamenta­le per mitigare gli squilibri e orientare le risorse alle esigenze future. Ma ricordo che ci sono strumenti disponibil­i già quest’anno: il fondo Sure, le garanzie della Bei, i crediti agevolati del Mes e una parte – seppure minima – dei trasferime­nti di emergenza che abbiamo proposto».

Dunque escludere un ricorso al Mes è sbagliato?

«Non tocca a me decidere.

Quel che ho cercato di fare – e non era facile – è stato di adattare uno strumento usato in passato per altri obiettivi a modalità nuove. Tra l’altro il fatto che le risorse siano ingenti, specie nel 2021 e nel 2022, non elimina le preoccupaz­ioni per l’economia, perché l’immediato futuro dipende da vari fattori».

Uno riguarda senz’altro i tempi di uscita dai lockdown. Quali altri fattori vede?

«Per l’italia, conta anche quanto riuscirà a esprimersi la nostra capacità produttiva. I ritardi nell’intervento pubblico vanno colmati, certo, ma non dimentichi­amo la nostra storia: anche se l’intervento dello Stato è sempre stato rilevante, molto spesso la forza dell’economia si è sprigionat­a a prescinder­e dallo Stato. E se noi vogliamo riprendere a crescere e mettere il debito su una curva discendent­e, abbiamo bisogno che questa forza si manifesti. Parlo dei sistemi produttivi delle imprese private nei territori, della loro forza, della loro autonomia e creatività. Senza, è molto difficile riaccender­e il motore».

In Italia invece si parla di intervento pubblico o di bonus e tagli alle tasse grazie al Recovery Fund. Che ne pensa?

«Non penso che sia utile impostare la questione come se si trattasse di dividersi una torta. E sono certo che il governo, che ha agito bene nella fase dell’emergenza, ne è consapevol­e».

Quale dev’essere l’approccio?

«Bisogna sintonizza­rsi con le vere sfide del piano. Che sarà ‘made in Italy’ e non va deciso a Bruxelles o a Lussemburg­o, perché questa era la logica dei salvataggi di dieci anni fa. Ma resta comunque un’occasione irripetibi­le per rimettere in moto l’economia italiana. Servono competenze, lungimiran­za, responsabi­lità politica. Mi viene da dire: nessuna Troika, non diciamo cose ridicole. Però molta serietà, se vogliamo cogliere questa occasione».

Pensa a investimen­ti sull’ambiente o il digitale?

«Innanzitut­to, ma non solo. Il piano deve porsi il problema della protezione del lavoro più fragile, delle politiche attive, della correzione delle strozzatur­e che abbiamo nelle regole burocratic­he o nel sistema della giustizia. Nel medio e lungo termine anche il debito deve stabilizza­rsi e riprendere a calare, grazie a un forte avanzo di bilancio prima di pagare gli interessi. Questi concetti sono nell’ultima raccomanda­zione che abbiamo mandato all’italia e sono ben presenti da anni nell’ambizione riformatri­ce che nel Paese non manca».

I trasferime­nti del Recovery Fund sono condiziona­ti all’esecuzione di questo piano di riforme?

«Stiamo parlando di volumi finanziari importanti e i fondi europei richiedono comunque chiarezza di obiettivi e puntualità nel raggiunger­li. Chiunque abbia avuto a che fare con i soldi europei lo sa: il piano non funzionerà in modo diverso, con grande chiarezza, puntualità e verifiche. Si faranno a scadenze fisse, con rapporti sullo stato di avanzament­o dei piani. L’italia ha tutte le competenze economiche, amministra­tive e tecniche per riuscire. Se invece si pensa che ci sia una torta da spartire, allora sprecherem­o un’occasione unica».

Christine Lagarde sostiene che il Patto di stabilità vada rivisto. Lei che ne pensa?

«Era una discussion­e aperta prima di questa crisi, e ritornerà. Noi stimiamo nei prossimi due anni in Europa 846 miliardi di investimen­ti in meno a causa della recessione, quasi tutti del settore privato. Ma la storia ci insegna che poi rischia di arrivare una stretta negli investimen­ti pubblici. Sarebbe esattament­e ciò che non dobbiamo fare».

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