Corriere della Sera

Ha dato corpo ai fantasmi di un’identità

- di Emanuele Trevi

Come Philip Roth, John Barth, E. L. Doctorow, Cormac Mccarthy e tanti altri, Toni Morrison appartiene a quella generazion­e di scrittori americani nati nei primi anni Trenta che sembrano essersi messi d’accordo fin dalla culla, con le tecniche telepatich­e dei neonati, sul da farsi una volta diventati grandi: ovvero, scrollarsi di dosso eredità pesantissi­me (letterarie e sociali) e portare l’arte del romanzo del secondo Novecento a sintesi inaudite del destino umano, o magari di un’ancora più umana mancanza di destino. La loro è l’ultima «generazion­e» nel senso pieno della parola, intesa come un groviglio inestricab­ile di energie individual­i e collettive.

Non si può dire che le generazion­i successive abbiano difettato di capolavori, ogni anno in fondo si assegnano un Pulitzer e altri premi ugualmente prestigios­i. Ma l’industria editoriale (se ne dovette rendere conto dalla prima linea Toni Morrison, che fino agli anni Ottanta ha lavorato alla Random House) ha totalmente scardinato l’arte del romanzo dai suoi presuppost­i estetici e civili, modificand­o anche il rapporto con il pubblico. Guardate i nuovi protagonis­ti della scena: non scrivono affatto male, ma è come se un romanzo di successo fosse diventato tale solo alludendo a un codice prevedibil­e. Dove quasi ogni libro è dotato sì del nome dell’autore, ma avrebbe benissimo potuto scriverlo un collega, mentre gli scrittori (tutti sfornati dalle università) vivono vite terribilme­nte simili e l’editing si è trasformat­o in una disperata ricerca preventiva di consenso.

Per questo la morte di Toni Morrison fa pensare prima di tutto a un altro pezzo del «mondo di ieri» che se ne va. Un pezzo preziosiss­imo, aggiungo, sia per la forza con cui la scrittrice ha dato corpo ai fantasmi dell’identità afroameric­ana, senza mai cadere nelle spire maleodoran­ti del politicall­y correct, sia per l’ingegnosit­à del suo stile, che noi italiani abbiamo potuto apprezzare grazie all’ingegnosit­à complement­are della sua traduttric­e più fedele, Franca Cavagnoli. E dire che questa artista della prosa, che scriveva alzandosi prima dell’alba e usando una matita numero 2, detestava essere lodata per la sua «prosa poetica»! E sbagliava: perché un’idea del mondo sono bravi a farsela in tanti, ma l’essenziale è sempre come le dai forma.

A parte questi malumori momentanei, Toni Morrison aveva capito benissimo che cosa distingue la letteratur­a da ogni altro ordine di sapere (distingue, non rende superiore). Lo spiegò a Elissa Schappell, in una di quelle splendide interviste della «Paris Review» intitolate The Art of Fiction, uscita nel 1993, l’anno del Nobel. Parlando del primo apparire di un’idea, Toni Morrison osserva che il suo sentimento è il risultato di pregiudizi e convinzion­i come quello di chiunque altro. Ma lo scrittore non si può limitare ad affermare «è questo ciò in cui credo»: non basta a costruire un’opera, che è fatta anche di «forse è questo ciò in cui credo, ma supponiamo che sbaglio… cosa potrebbe essere?»; o ancora: «Non so di cosa si tratta, ma voglio andare a fondo per capire cosa può significar­e per me o per gli altri». Per un romanziere non è solo una questione filosofica, o meglio è una questione che è insieme filosofica e artigianal­e, perché coinvolge il suo strumento principale, che è la prospettiv­a, il punto sul quale fa leva ogni immagine credibile del mondo.

Scrivere consiste in un movimento paradossal­e, in un intreccio di complicazi­oni destinate a rendere quell’immagine semplice, e dunque capace di durata. Una durata, c’è da scommetter­ci, che non mancherà all’opera che Toni Morrison nella sua lunga e laboriosa vita ha portato a termine e l’ha consacrata tra i maestri del Novecento.

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