LA FIDUCIA CHE SI DEVE RITROVARE
Primarie: in testa Zingaretti. A un eventuale partito di Renzi andrebbe il 6,1%
Ogni anno in Giappone la società per la salvaguardia della scrittura Kanji, nobile usanza minacciata dalla modernità, sceglie una parola che rappresenta lo stato d’animo del Paese. La parola scelta per il 2018 è «sai»: disastro. Si riferisce alle catastrofi naturali, ai terremoti e alle inondazioni che hanno flagellato il Giappone. Ma esprime pure il cattivo umore di una nazione che si è enormemente arricchita dopo la guerra, resta quella in cui si vive di più al mondo, ma ha perduto lo slancio che ne aveva fatto l’avanguardia d’oriente e vivacchia nell’attesa di una svolta che forse non verrà neppure con i Giochi di Tokyo 2020.
Inevitabile pensare anche all’italia. E non solo perché anche l’italia perse la Seconda guerra mondiale, fu ricostruita in tempi record, divenne una potenza economica e ha imboccato da almeno 25 anni la via del declino.
Il 2018 è stato un anno duro, pure per noi. Il crollo del ponte di Genova. Le alluvioni. Disastri figli non della natura, ma dell’incuria. I fatti di cronaca che hanno colpito di più l’opinione pubblica segnalano un’autentica emergenza educativa: prima la fine orribile di Pamela e di Desirée, giovanissime vite bruciate dalla droga e dalla violenza di spacciatori immigrati; ora la strage in discoteca. Tragedie diverse, ma significative di una generazione che appare allo sbando.
Il 2018 non è stato facile neanche per i nostri vicini. La tenuta della società è incrinata come quella della politica.
Dopo il deludente risultato ottenuto alle elezioni Politiche del 4 marzo il Pd sta vivendo una fase travagliata, alla ricerca di un nuovo leader e di una nuova proposta politica.
Non è un’impresa facile, tenuto conto del significativo calo di consenso registrato nei suoi dieci anni di vita.
Partiamo dai numeri: il Pd di Veltroni esordisce alle Politiche del 2008 ottenendo poco più di 12 milioni di voti, alle successive Politiche del 2013 il Pd di Bersani viene votato da 8,6 milioni di elettori, mentre alle Europee dell’anno successivo il Pd di Renzi ottiene 11,2 milioni di voti, e alle ultime Politiche il partito, sempre guidato da Renzi, si ferma a 6,2 milioni di voti, con una perdita di circa 2,5 milioni rispetto alle precedenti Politiche e di 5 milioni rispetto alle Europee.
I sondaggi Ipsos più recenti accreditano il Pd tra il 17% e il 18%, con un’ulteriore perdita di circa un milione di elettori. I flussi elettorali mostrano che gli elettori delusi dal Pd alle Politiche hanno scelto principalmente di astenersi o votare M5S.
La definizione di una nuova proposta appare particolarmente complessa. Non stupisce quindi che l’elettorato del Pd sia molto diviso riguardo alla strategia futura: il 51 per cento auspica un partito che torni a parlare agli elettori di sinistra, mentre per il 47 per cento il Pd dovrebbe continuare la trasformazione in un partito capace di parlare anche al centro o a destra, a coloro che non si riconoscono nel populismo e nel sovranismo.
Tra la totalità degli elettori, lo spostamento a sinistra è preferito dal 36 per cento mentre il 26 per cento preferirebbe una forza che guarda anche al centro e alla destra moderata.
Tra le diverse ipotesi di cui si parla c’è quella di un avvicinamento tra Pd e M5S su alcuni temi, ipotesi che suscita il favore del 22 per cento degli elettori e la contrarietà del 59 per cento. Anche tra gli elettori di centrosinistra i contrari (60 per cento) prevalgono sui favorevoli (37 per cento), come pure tra i pentastellati (57 per cento contro 39 per cento). E l’idea che in futuro Pd e M5S possano allearsi a livello nazionale e locale ottiene risposte analoghe.
Le primarie per l’elezione del segretario rappresentano un tratto identitario per il Pd: dopo il ritiro di Minniti, abbiamo testato le preferenze tra Zingaretti, Martina e Giachetti (in ticket con Ascani). Il governatore del Lazio prevale
Boom dell’astensione Dal 4 marzo i dem hanno perso un altro milione di voti, molti verso l’astensione
sul segretario uscente sia nell’elettorato del Pd (39 per cento a 17 per cento) sia in quello delle altre liste del centrosinistra (40 per cento a 12 per cento), mentre Giachetti si attesta all’8 per cento e al 6 per cento sui due elettorati presso i quali, tuttavia, si registra una quota elevata di incerti (32 per cento e 37 per cento).
Da ultimo, in queste settimane si è parlato della possibilità che Renzi possa uscire dal Pd per fondare un proprio partito. La cautela è ovviamente d’obbligo in questi casi, perché è difficile misurare le intenzioni di voto ignorando quali potrebbero essere le motivazioni alla base dello «strappo» (e il relativo consenso), nonché il nome, il posizionamento e le strategie previste dalla nuova formazione. Pur con la prudenza del caso, secondo il sondaggio il partito di Renzi potreb- be raccogliere il consenso del 3,4% degli elettori corrispondente al 6,1% dei voti validi. Il consenso proverrebbe in larga misura dal Pd (73 per cento), dagli astenuti (12 per cento), da Forza Italia e Noi con l’italia (8 per cento).
Ciò sta a significare che il Pd rischierebbe di indebolirsi, non potendo al momento compensare la perdita di voti con il ritorno di ex elettori che il 4 marzo scorso hanno abbandonato il partito per la scarsa sintonia con Renzi.
Indubbiamente l’ipotesi di una nuova scissione, questa volta ad opera di Renzi, rischia di togliere serenità (ma non sarebbe un fatto inedito per l’ex segretario) ad un partito alle prese con quella che si prospetta come «una lunga traversata del deserto». E anche questo non sarebbe un fatto inedito.