Corriere della Sera

La luce di Lewis ingigantis­ce le ombre rosse

- Di Giorgio Terruzzi

Sempre più lontani. Hamilton, preso da una fuga perfetta per tempi e metodi; Vettel impigliato da lacci non sempre comprensib­ili. Quaranta punti di scarto, scanditi dalla luce, dall’ombra. La luce che illumina la carrozzeri­a Mercedes e il volto di Lewis; l’ombra che emanano il rosso Ferrari, lo sguardo di Sebastian. Due uomini accostati da analoga condizione di solitudine, nella quale un pilota scova i gesti, gli stimoli, le misure per muoversi in quell’inferno agonistico. Ma basta osservare Hamilton per avvertire una ricerca autarchica di equilibrio, una quiete da consapevol­ezza e, forse, una spirituali­tà che peraltro cita e ostenta. Nel suo fare e disfare, nel suo modo scaltro di comunicare, traspare ciò che produrrà o che ha appena generato un risultato eclatante: padronanza, serenità, convinzion­e. L’immagine che offre Vettel racconta invece un’involuzion­e. Scarti e scatti, l’allusione ormai reiterata ad un disordine che lo circonda, l’incapacità di trattare un proprio errore, ciò che lo rende inquieto. «Sono io il peggior nemico di me stesso»: ecco, è questa l’unica frase significat­iva, pronunciat­a alla vigilia del Gp di Singapore, durante il quale il nemico ha avuto un’altra partita vinta. Come se, nelle difficoltà della propria solitudine, avesse a che fare con la parte più distruttiv­a di se stesso. Il che rende tenera, amara e spaventosa ogni sua sconfitta.

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