La luce di Lewis ingigantisce le ombre rosse
Sempre più lontani. Hamilton, preso da una fuga perfetta per tempi e metodi; Vettel impigliato da lacci non sempre comprensibili. Quaranta punti di scarto, scanditi dalla luce, dall’ombra. La luce che illumina la carrozzeria Mercedes e il volto di Lewis; l’ombra che emanano il rosso Ferrari, lo sguardo di Sebastian. Due uomini accostati da analoga condizione di solitudine, nella quale un pilota scova i gesti, gli stimoli, le misure per muoversi in quell’inferno agonistico. Ma basta osservare Hamilton per avvertire una ricerca autarchica di equilibrio, una quiete da consapevolezza e, forse, una spiritualità che peraltro cita e ostenta. Nel suo fare e disfare, nel suo modo scaltro di comunicare, traspare ciò che produrrà o che ha appena generato un risultato eclatante: padronanza, serenità, convinzione. L’immagine che offre Vettel racconta invece un’involuzione. Scarti e scatti, l’allusione ormai reiterata ad un disordine che lo circonda, l’incapacità di trattare un proprio errore, ciò che lo rende inquieto. «Sono io il peggior nemico di me stesso»: ecco, è questa l’unica frase significativa, pronunciata alla vigilia del Gp di Singapore, durante il quale il nemico ha avuto un’altra partita vinta. Come se, nelle difficoltà della propria solitudine, avesse a che fare con la parte più distruttiva di se stesso. Il che rende tenera, amara e spaventosa ogni sua sconfitta.