Il dolore dei genitori «Sempre col cellulare, ma non è stato un gioco Era lì per un concerto»
La sorella, 11 anni, lo ha saputo da Facebook
Sara, undici anni, ha MILANO letto della morte del fratello Andrea prima che glielo dicessero a voce i genitori, corsi al centro commerciale e in ospedale. Sara era a casa e ha visto i «riposa in pace» e i «cuori» degli amici riempire i profili Instagram e Facebook. «Con i cellulari i nostri figli vivono tutto velocemente in tempo reale» dice Alessandro, il papà, artigiano dalle dita delle mani tagliate e piene di lividi.
Eppure nella settimana che ha preceduto la tragica fine di questa giovanissima vita, i social sono rimasti un po’ a parte. O forse no, forse ricordare gli ultimi giorni di Andrea è un tentativo per esorcizzare quella che, senza ammetterlo ad alta voce, viene considerata una delle cause della tragedia, «Internet e quei telefonini...». Lunedì il ragazzino si era ammalato, influenza. Al mattino, se la temperatura non era alta, usciva dal piccolo appartamento al piano terra di via Cusani, si sedeva sulla panchina coperta di cuscini e avvolto in una coperta ascoltava i racconti dei vicini, altri italiani e nordafricani che dividono in armonia questo stretto e umile cortile di corte, tra cani placidi e stendini all’aperto. Venerdì Andrea aveva iniziato a star meglio e sabato pomeriggio aveva voluto andare allo stadio Meazza, lui interista innamorato perso e abbonato del secondo anello, per la partita contro il Parma. Alle 18, di rientro a Cusano Milanino, s’era messo d’accordo con gli amici per trovarsi al «Sarca», uno dei luoghi di rito della compagnia, mangiare dei panini e guardare un film. Quel film non l’hanno visto perché hanno deciso di salire in cima. Alessandro per primo, e i tanti parenti che stringono quest’uomo basso e dagli occhi chiari, fuori dalla porta per ricevere gli abbracci mentre moglie e figlia restano nell’appartamento davanti ai telegiornali ripetendo «quante cazzate dite», sa che nulla mai cambierà e Andrea non tornerà. Però «i selfie non c’entrano, non sono saliti per dei selfie. Al Carroponte, l’area eventi posizionata proprio di fronte al centro commerciale, c’era una festa con musica e volevano scattare delle foto. Dal tetto del centro commerciale la visuale è buona. Non dovevano farlo, ma nessuno glielo ha impedito. Il varco era aperto, non c’erano cancelli, non c’erano barriere, non c’era niente di niente sopra quella grata. Non se la sono andata a cercare, questa storia non la voglio sentire, è cattiveria, non è giusto. Non è giusto per Andrea, un ragazzo semplice, un bravo ragazzo».
Andrea stava ripetendo il primo anno all’istituto tecnico Eugenio Montale. Già capitano della squadra di calcio degli Allievi del Bresso, centrocampista di corsa e di piede, quest’anno si era preso una pausa dal pallone. «Ma non esistevano problemi, non era affatto un ragazzino triste, che aveva perso entusiasmo» dice Mimmo, un affettuoso amico di famiglia: «Era tornato insieme a Lucia, la bellissima fidanzatina con la quale si era lasciato e poi ripreso; a scuola adesso andava bene e insomma le cose procedevano serenamente». Uno zio di Andrea domanda un aiuto («Far sapere all’inter se può sostenerci per fargli un regalo, mandando un giocatore a salutarlo») e accompagna il Corriere al centro commerciale. Ecco ilpunt od’ inizio dell’ «ar rampicata ». C’ è un vigilante, un africano gentile e deciso: «Non potete passare». Lo zio si appoggia al muro e accende la sigaretta: «Tu non c’entri niente e io ti chiedo scusa, ma sabato sera dove eravate? Dove?».