«Vado in cella per il Russiagate ma Trump è un grande leader»
L’ex advisor Papadopoulos: mi candido al Congresso
WASHINGTON George Papadopoulos si prepara a scontare 14 giorni di carcere per aver nascosto all’fbi i suoi contatti indiretti con funzionari del governo russo. È una pena temperata dalla collaborazione con il super procuratore Robert Mueller, che indaga sul Russiagate, l’ipotesi di collusione tra il comitato elettorale di Donald Trump e il Cremlino per danneggiare Hillary Clinton. Papadopoulos, 31 anni, nato a Chicago da genitori greci, è stato uno dei consiglieri di Trump fino al gennaio 2017. Risponde al telefono da Chicago, accanto alla moglie Simona Mangiante che gli ha fatto da portavoce in tutti questi mesi.
Per prima cosa ci può spiegare qual è stato il suo ruolo nel comitato elettorale di Trump? La portavoce della Casa Bianca, Sarah Sanders, l’ha liquidata come un «volontario di basso livello». Altri come un «coffee boy», il ragazzo che porta i caffè ai boss…
«Sarah Sanders ha dichiarato che anche Paul Manafort o l’avvocato Michael Cohen sono due persone che Trump conosce a malapena. E non credo proprio che Manafort fosse un volontario di basso livello. Penso che questa sia la strategia difensiva adottata della Casa Bianca ogni volta che qualcuno si trovi nei guai. Detto questo io ero un consigliere di politica estera nel comitato elettorale. Ho collaborato alla stesura del primo discorso di politica estera di Trump, ho parlato alla Convention repubblicana, ho organizzato l’incontro tra Trump e il presidente egiziano e ho contattato leader di diversi Paesi per conto del comitato elettorale e poi del transition team (il gruppo che gestisce la transizione da una presidenza all’altra ndr)».
A un certo punto lei propose di organizzare un incontro tra Vladimir Putin e Donald Trump. Come reagì il futuro presidente degli Stati Uniti?
«Valutò con attenzione la proposta, ci pensò sopra e poi decise di affidare la verifica della fattibilità a Jeff Sessions (attuale ministro della Giustizia ndr)...»
In un’audizione al Senato, Sessions ha dichiarato di aver contrastato quell’idea…
«All’epoca si dimostrò entusiasta…»
Ma la prospettiva di stringere rapporti più stretti con i russi era già nell’agenda del candidato Trump o del suo comitato elettorale?
«Non saprei. Posso dire però che tutto il comitato era al corrente di ciò che stavo facendo per organizzare questo incontro. Avevo cominciato a parlarne con un professore di Malta». L’incontro con Putin Fu Manafort, capo della campagna elettorale, a bocciare l’idea dell’incontro con Putin
Il professore Joseph Mifsud, attivo anche in Italia. Vantava collegamenti con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Fu lui a dirle che i russi avevano materiale compromettente su Hillary Clinton?
«Sì, me lo disse in un incontro nell’aprile del 2016 a Londra».
E lei lo riferì a qualcuno del comitato elettorale di Trump?
«Non ricordo di averlo fatto».
Scusi non si ricorda se ne ha parlato con qualcuno con la campagna elettorale? Com’è possibile?
«No, zero, non ricordo. Sono sicuro, invece, di averne parlato con il ministro degli Esteri greco».
Il ministro degli Esteri greco?
«Sì gli ho ripetuto quello che Mifsud mi aveva detto a proposito di “gossip” e indiscrezioni su Hillary Clinton».
Perché alla fine l’incontro Trump-putin non si fece?
«A me era sembrato che qualcuno nel comitato fosse interessato ad andare avanti, ma fu Manafort (capo della campagna dal giugno all’agosto del 2016 ndr) a bocciare l’idea».
Perché?
«Non ne ho idea, veramente».
Forse perché voleva gestire in prima persona i contat- ti con i russi, visti i suoi contatti con gli ambienti ucraini filo-mosca?
«Non lo so. Non conosco bene Paul Manafort. Io non ho mai incontrato esponenti del governo russo, e certamente Manafort aveva molti collegamenti. In ogni caso, qualunque fosse la ragione, mi disse di fermarmi».
A questo punto che idea si è fatto del Russiagate? Il super procuratore Mueller può raccogliere prove per mettere sotto accusa il presidente?
«Non lo so. Penso che nessuno onestamente possa dire di avere la risposta. Posso solo dire che è un’indagine molto ampia e io ne sono stato solo una piccola parte».
Quante volte ha incontrato Trump?
«Solo una».
Che impressione le ha fatto?
«E’ un uomo molto intelligente, con le idee chiare e ascolta molto».
È un’immagine decisamente diversa da quella che emerge dai libri di Micheal Wolff e di Bob Woodward: un uomo fuori controllo…
«È tutt’altro che fuori controllo. È stato capace di battere avversari di grande livello nelle primarie ed è diventato presidente».
Le piacerebbe tornare a lavorare per lui?
«Non penso che sarà possibile. Ma voglio restare in politica. Riprenderò a fare il consulente e mi preparerò per candidarmi al Congresso».