PAURA (E FIORI) A PRAGA
LA MIA ESTATE 1968 Il viaggio in auto con un amico, la città piena di turisti e il risveglio con i carrarmati russi in strada: i ragazzi protestavano, ma si è capito che non sarebbe stata un’altra Budapest Non ho visto la casa di Kafka e Malastrana, ma il
La mattina del 18 agosto 1968, con un amico napoletano, salimmo in macchina e, da San Vigilio di Marebbe, ci dirigemmo verso Praga. Io stavo per laurearmi in Lettere; il mio amico in Economia; io avevo partecipato a qualche assemblea del ’68 e persino (in retrovia) alla famosa battaglia di Valle Giulia; lui, francamente, non mi ricordo che posizione avesse; i vietcong bombardavano Saigon; in Italia c’era Saragat, in Francia De Gaulle, in Spagna Franco. A Vienna, mio padre aveva combinato un incontro con un suo amico, corrispondente del Messaggero, che ci invitò a pranzo in un ristorante di Grinzig e ci spiegò che a Praga tutto era tranquillo e in pieno fervore e scelta migliore non avremmo potuto farla. Quindi, ringraziatolo, ripartimmo e in serata arrivammo a Praga.
Era il 20 agosto. La città rigurgitava di turisti. Infatti stanze libere non ce n’erano in un arco di cento chilometri. Se eravamo fortunati, potevamo mettere la macchina in un camping e dormire lì. Così, su un ponte della Moldava cambiammo poche lire italiane ricevendo un pacco di moneta cecoslovacca, chiedemmo quale fosse il ristorante più caro della città e approdammo in quello, pessimo, di un albergo di Piazza San Venceslao, trovammo il camping, ci infilammo in un posto libero fra una automobile targata Vercelli e una targata Milano, e, uno sul sedile davanti, l’altro su quello di dietro, ci accucciamo.
Come è noto, dormire in macchina è scomodissimo. Ma dormire in macchina in un camping costruito vicino a un aeroporto, con il continuo rumore dei decolli e degli atterraggi, era una tortura. All’alba, rotolammo fuori dalle nostre cuccette e io, subito, mi rivolsi al «vicino di letto» milanese, in canotta e infradito. «Scusi», gli dissi, «ma secondo lei è normale fare un camping accanto a un aeroporto?». Lui, fuori di sé dall’eccitazione, mi mandò a quel paese: «Ma che camping e aeroporto, sono arrivati i Russi!». «Sta scherzando?». «No». Ci precipitammo all’ingresso: dava su un lunghissimo vialone di periferia, percorso al centro dalle rotaie del tram. Sopra questo viale, spaccando le rotaie, avanzava una interminabile colonna di carrarmati. Non erano solo Russi: erano le truppe del Patto di Varsavia che venivano, «di persona», a comunicare che il sogno della Primavera Praghese doveva considerarsi finito.
E noi? Che dovevamo fare? Chi avvisava i nostri genitori? Dovevamo rimanere ad assistere a una possibile resistenza come quella di Budapest dodici anni prima, o tornare in Italia? Col cuore in gola, la paura, un sentimento di allerta profondo e confuso, il desiderio inconscio di vedere la resistenza, ci spingemmo fino a dove era possibile, parcheggiammo e cominciammo un frenetico giro attraverso la città sotto assedio.
Le truppe del Patto avevano piazzato carrarmati ovunque. Ma i praghesi, i giovani soprattutto, i ragazzi e le ragazze, stavano facendo la loro parte. Protestavano, insomma. E in che modo? Si riunivano in un corteo con le bandiere, percorrevano uno dei viali a fianco del fiume, andavano verso il carrarmato che lo bloccava gridando slogan e cantando. Poi, quando la distanza fra la testa del corteo e il carrarmato era di poche decine di metri, i soldati si ritiravano sotto la torretta e alzavano i cannoni. A quel punto, io e il mio amico, eroi non fino a quel punto, ci defilavamo; i giovani proseguivano e salivano sul carrarmato; deponevano dei fiori; non succedeva niente. Era tutto molto strano. I soldati sovietici e del Patto, tra i quali si notavano molti orientali, avevano volti sgomenti e ignari di fanciulli. Ai ragazzi che li interrogavano, rispondevano così: alcuni proprio non sapevano dove si trovavano; altri sostenevano di essere venuti per sgominare una banda di agenti tedeschi vestiti in abiti occidentali; altri dichiaravano di essere venuti a fermare la controrivoluzione; altri dicevano di essere venuti a mostrare quale fosse la verità.
Intanto, ma raramente, si udiva qualche sparo; dalle radioline, si diffondevano le voci più incontrollate: c’erano morti e feriti; Dubcek era stato arrestato e già si trovava a Mosca; i movimenti della resistenza lanciavano appelli ai quali seguivano i lugubri silenzi del nulla; la battaglia tardava; forse sarebbe iniziata di lì a qualche giorno; e, questa era la cosa francamente più sorprendente, i ristoranti con le volte basse nei quali si mangiava il tipico gulasch innaffiato da boccali di birra, erano pieni, ma non di turisti, di praghesi, seduti a tavola come si sta in una normale giornata feriale, meglio festiva, di sicuro non alla vigilia di una rivolta. Insomma, che stava capitando? Stava capitando — era palese — che non sarebbe successo nulla. O poco. Si leggeva nelle facce delle persone, negli atteggiamenti in fondo pacifici dei cortei; si confermava nel colpo d’occhio di quei commensali infervorati col naso rosso; negli sguardi cauti e tristi delle donne di mezza età. No, dopo i morti di Budapest, non ci sarebbero stati i morti di Praga.
Noi, nel frattempo, eravamo approdati all’ambasciata italiana. Tra non molto, un raggruppamento di automobili sarebbe stato scortato fino alla frontiera; bisognava attendere. Finiva, così, la «scappata» dalla ripetitiva villeggiatura borghese. Non avrei visto la casa di Kafka, lo scrittore impiegato alle assicurazioni che, la notte, se sentiva un rumore di passi al piano di sopra, provava la stessa sensazione di una matita puntuta che gli lacerasse il cranio; non avrei visto la sua tomba; non avremmo passeggiato nelle stradine di Malastrana. Ma avevamo visto il comunismo. Quello, sì.
I praghesi stavano facendo la loro parte. Protestavano, insomma. Si riunivano in un corteo con le bandiere, andavano verso il carrarmato gridando slogan e cantando