«Volevo sposare una donna ma suo padre non acconsentì Ora prego senza vergogna»
Il filosofo: cercavo la normalità, poi mi sono innamorato
F ino a poco tempo fa, come una rockstar della filosofia, Gianni Vattimo faceva anche duecento date l’anno, fra Europa, Sud America, Stati Uniti, Australia, Cina. Erano conferenze, incontri, lezioni. Oggi, sarebbe ancora in tour perenne, se non fosse che, a 82 anni, i malanni lo tengono fermo in casa, a Torino, dove un mese fa ha ricevuto una telefonata di papa Francesco che lo ringraziava per avergli inviato il suo ultimo libro, Essere e Dintorni, edito dalla Nave di Teseo. Vattimo mi riceve seduto in poltrona, ieratico, eretto, le mani sui braccioli. Le «date» gli mancano. Dice: «Sono stimoli in meno. Sono sempre andato anche nei paesini sperduti: penso che, se qualcuno mi vuole sentire, mi merita. L’indole riconoscente dipende dalle origini proletarie: sono figlio di un carabiniere calabrese e migrante, morto di polmonite che avevo 16 mesi, sono stato cresciuto da madre vedova e sarta, tendo a sentirmi in debito più che in credito».
Per quali vie un proletario diventa filosofo?
«Se sei socialmente sfavorito, la pulsione a riuscire è più intensa. E molto ha giocato l’educazione cattolica. Stavo crescendo per strada, leggendo romanzi di Jack London pieni di ditate di marmellata, finché mamma non mi mandò all’oratorio. Dopo aver preso molte botte dagli altri bambini, ero un piccolo santo, andavo a messa tutte le mattine».
Che trovò nella religione?
«Il piano di vita. Sapevo che dovevo organizzare i rapporti con me stesso, con gli altri e con Dio. E che ogni giorno dovevo fare l’esame di coscienza».
È del ’36. Che ricorda della guerra?
«I bombardamenti e la nostra casa distrutta. Da Torino, sfollammo in Calabria. Al ritorno, i coetanei mi picchiavano perché ero terrone. Poi, ho imparato il piemontese. Anni dopo, quando incontravo Umberto Eco, ci raccontavamo barzellette in piemontese».
Lo ha definito il suo «ultimo padre».
«Dopo la morte del mio maestro Luigi Pareyson, non avevo altri a cui chiedere se avevo torto o ragione. Ora che non c’è più, non sono più figlio. Non sono neanche più, come mi diceva