Walter Bonatti eroe antiretorico
La severità del suo carattere emerge nel testo inedito su una scalata del 1958
Se le condizioni meteorologiche sono benevole e si riesce a prendere con relativa rapidità il volo da Islamabad al villaggetto himalayano di Skardu, oggi un buon camminatore allenato è in grado di arrivare da Milano ai 5.100 metri di quota del campo base al K2 in circa due settimane. Walter Bonatti e la sua spedizione per arrivare al vicinissimo Gasherbrum IV, esattamente sessant’anni fa, impiegarono 48 giorni, compreso il viaggio sulla nave salpata da Genova il 30 aprile 1958 con 75 quintali di materiali distribuiti in 280 casse che non superassero i 30 chili ciascuna da affidare ai portatori balti. E compresi gli infiniti intoppi burocratici, assommati alle difficoltà organizzative e al brutto tempo soffiato dai venti monsonici.
Alle 12.30 del 6 agosto sui 7.980 metri della vetta del Gasherbrum Bonatti e Carlo Mauri sventolavano le bandierine italiana e pachistana, assieme al gagliardetto del Club Alpino Italiano (Cai). Le foto scattate sulla cima sono quelle classiche, dove si suppone trionfino la felicità e il sollievo per la vittoria. Si sommano a quelle in bianco e nero molto artistiche di un mago delle immagini quale era Fosco Maraini, che ritraggono le fasi della salita, le ombre scure dei portatori allineati sul bianco accecante dei ghiacciai, i volti segnati degli alpinisti, i giochi di luce in alta quota. Una spedizione italiana di successo agli albori del boom economico simboleggiava il riscatto nazionale dalle umiliazioni della guerra terminata solo 13 anni prima. Era la seconda, dopo quella al K2 guidata da Ardito Desio nel 1954.
Eppure, non mancarono litigi, incomprensioni e difficoltà di ogni genere, soprattutto con i portatori e il «capitano Dar», che era l’ufficiale di collegamento pachistano, ma anche tra gli otto alpinisti italiani. «Vorrei non essere mai venuto su questa maledetta montagna la cui conquista per me ormai non può che rappresentare nient’altro che la fine di una lunga pena», annota Bonatti nel suo inedito carnet d’expedition, ora pubblicato con il titolo La montagna scintillante (Solferino). Il fuoriclasse italiano — aveva appena 28 anni, arrampicava da soli dieci, ma era già considerato tra i massimi alpinisti dell’epoca — ha critiche per tutti. Se la prende con i portatori locali, accusati di essere pigri, rancorosi, mai contenti delle paghe rimoro, In alto: Bonatti in un tratto impegnativo su terreno misto nella cresta nord-est. A sinistra, i componenti della spedizione al campo base. In piedi da sinistra: Riccardo Cassin, il capitano A.K. Dar, Giuseppe Oberto, Donato Zeni , Walter Bonatti, Toni Gobbi e Fosco Maraini. In prima fila: Bepi De Francesch e Carlo Mauri cevute, lavativi sino a mettere a rischio la vita di chi va ai campi alti.
Non c’è nulla nelle sue parole della retorica melensa che in genere esalta le figure degli abitanti locali delle «terre alte» come semplici e generose. Tutt’altro. Ne sa qualche cosa Simone l’alpinista lombardo quasi ucciso pochi anni fa a colpi di piccozza dagli sherpa nepalesi, perché deciso a salire nella zona dell’everest senza sottostare ai loro diktat mafiosi riguardo alle pareti, che loro vedono ormai come monopoli esclusivi per spillare soldi agli stranieri.
Bonatti, come spesso in materia, anticipa i tempi e vede Dar come un ostacolo, lo definisce «il nostro ufficiale nemico, il nostro despota, di cui noi siamo penosamente tutti succubi». Se la prende anche con l’allora ormai 49enne Riccardo Cassin, il mitico lecchese «padre» di almeno un paio di generazioni di amanti delle Alpi occidentali a metà Novecento, che il Cai aveva volutamente scelto come capo spedizione. Doveva essere l’anti-ardito Desio. Se al K2 Bonatti, e non solo lui, aveva detestato la retorica nazionalista del geologo-esploratore, fanatico della disciplina di moda nel Ventennio, che aveva organizzato l’attacco alla seconda vetta della Terra come fosse una spedizione militare anni Trenta, al Gasherbrum si scopre a detestare il caos anarchico che impera sotto Cassin.
La sua polemica durata tutta la vita contro il Cai e Desio, per essere stato abbandonato a oltre 8.000 metri in un bivacco allucinante sotto la cima del K2, per un attimo è offuscata dalle
Anticipò Messner nel sostenere che in alta quota non serve usare le bombole di ossigeno
rabbie covate nel 1958. Una disorganizzazione tanto grave da costringere lui e Mauri, giunti ormai ad un tiro di schioppo dalla cima, ad una ritirata precipitosa a causa della fame. I portatori non salgono. Invece dell’agognato cibo arrivano bombole d’ossigeno e relative maschere, che qui non servono. Sin dal K2 infatti Bonatti si era convinto fosse meglio non ricorrere all’ossigeno, anticipando Reinhold Messner di un buon ventennio. Così, il secondo attacco alla cima con successo, pochi giorni dopo, sarà garantito solo dal ritorno alla disciplina dettato dalla sua furia.
«Ma dove sono tutti? I portatori d’alta quota? Cosa fanno? Dov’è Cassin? Toni Gobbi? Maraini? Perché questo caos?», scrive rabbioso. È affascinante leggerlo in queste riflessioni scritte per un libro che doveva essere pubblicato appena dopo la fine della spedizione, ma è rimasto a impolverarsi nei suoi ricchi archivi privati sino al 2016 (cinque anni dopo la sua morte). Sono stati infatti i ricercatori del Museo Nazionale della Montagna a Torino, che, appena aperte le decine di casse ricevute dai discendenti di Bonatti, hanno scoperto il manoscritto assieme a foto e materiali. La montagna scintillante diventa così la cronaca fresca e appassionata di un’ascensione legata al mondo delle salite extraeuropee nel loro periodo d’oro. E getta nuova luce sul carattere e il modo di pensare di uno dei giganti nella storia dell’alpinismo mondiale.