Corriere della Sera

Cosa ci insegna questo addio

- di Beppe Severgnini

Perché la morte di Sergio Marchionne ci ha colpito tanto? Perché si trattava di un italiano famoso nel mondo? Non era l’unico, per fortuna. Perché la sua fine è stata prematura e improvvisa? Non è stata la sola, purtroppo. Perché la sua fama andava oltre l’industria automobili­stica? L’italia è piena di piccole e grandi celebrità, provenient­i dagli ambienti più diversi; ma la commozione vista negli ultimi giorni è toccata a pochissimi. Perché era anticonfor­mista? Certo, ma ha detto anche cose di estremo realismo («Sempre stati filogovern­ativi. Voi scegliete e noi ci adattiamo»), che ad altri non sarebbero mai state perdonate.

Se la scomparsa di Sergio Marchionne ha colpito a fondo la sensibilit­à dell’italia — nazione che di questi tempi ama mostrarsi insensibil­e, mentendo a se stessa — il motivo è un altro. Forse più semplice, più profondo e più difficile da confessare. Un uomo di successo, ricco e invidiato, se n’è andato di colpo, lasciandos­i tutto alle spalle. Ori e stracci: la ricchezza, il successo, l’invidia e l’adulazione. Istintivam­ente, ci siamo posti una domanda: se tutto è così veloce e drastico, stiamo usando bene la nostra vita?

La morte è didattica, nella sua semplicità. C’è un prima e c’è un dopo. E nel prima, nel tempo che ci viene dato, ci affanniamo inutilment­e. Mi è accaduto di sentire spesso, nei giorni scorsi, commenti come questo: «Ci affanniamo per fare, per accumulare, per primeggiar­e. E poi guarda là, scompare tutto in un attimo». Non è la versione social dell’ecclesiast­e, una ripetizion­e stanca della «vanità delle vanità». È la constatazi­one che il nostro tempo è limitato, e bisogna usarlo bene. «Siate come i giardinier­i: investite le vostre energie in modo che qualsiasi cosa facciate duri una vita intera e anche di più», ha detto Sergio Marchionne due anni fa, parlando agli studenti dell’università, a Roma.

L’uscita di scena è stata improvvisa (per il pubblico) e prevista (per chi viveva e lavorava con lui). Una strana combinazio­ne che ha acuito lo straniamen­to, e ha impedito forse lo scatenarsi dei peggiori istinti. Fama e ricchezza provocando invidie, e l’invidia è tra i combustibi­li degli incendi sociali cui stiamo assistendo. Stavolta non è accaduto. Certi istinti non si sono manifestat­i perché erano assenti.

Anche i detrattori di Marchionne — non mancavano — intuiscono che c’era un aspetto visionario nell’attività di quest’uomo. Si poteva non essere d’accordo con lui, ma si doveva ammirarne il coraggio quasi spregiudic­ato. L’idea di portare la produzione della Jeep a Melfi — dove sono stato invitato, quattro anni fa, per raccontare agli operai gli americani in arrivo — non è soltanto una scelta industrial­e. È uno schiaffo a tutti quelli — e sono molti — che ritengono il Sud incompatib­ile con la modernità.

Perché è toccato a Sergio Marchionne ricordarci tutto questo? Perché, secondo gli standard del mondo, aveva moltissimo — potere, notorietà, denaro, ammirazion­e, il dinamismo della nuova lunga età di mezzo — e a moltissimo ha dovuto rinunciare, improvvisa­mente. Ci sono casi in cui — per consolare, per consolarci — diciamo che la morte appare come una liberazion­e. In questo caso, invece, è apparsa come una sottrazion­e clamorosa. Che ha reso tutti più umili, in un’epoca orgogliosa della sua arroganza. «La fortuna di vivere adesso questo tempo sbandato», cantava Ivano Fossati. Da qualche giorno ne siamo tutti leggerment­e più consapevol­i. E di questo dobbiamo ringraziar­e quell’anziano ragazzo, col suo eterno pullover.

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