Corriere della Sera

Né la vendetta né la punizione Riparazion­e, l’altra via della giustizia

- di Carlo Baroni

Verità e Riconcilia­zione sono due parole che non potrebbero camminare insieme. Magari procedere sulla stessa strada, ma a distanza l’una dall’altra. Alla fine della Verità c’è la giustizia (qualche volta) o la vendetta (più spesso). Perché certe cose è meglio non saperle. La Verità è un esercizio di memoria. Si porta dietro le scorie di una vita. Raggiunger­la ci farà liberi ma non è detto che ci renda migliori o più buoni. Per ricongiung­ere Verità e Riconcilia­zione ci vuole un atto creativo. Il coraggio di capovolger­e i ruoli. Vittime e carnefici si devono scambiare gli abiti e vedersi, per la prima volta, nei panni dell’altro.

Storie di giustizia riparativa, pubblicato dal Mulino, è un libro che racconta questo cammino. Nel Paese dove era più improbabil­e che succedesse. O forse proprio per questo: il Sudafrica del postaparth­eid. Lacerato e diviso. Un puzzle di odi e rancori quasi impossibil­e da ricomporre. Ma, come scrive Claudia Mazzucato — una delle curatrici del libro, insieme con Gian Luca Potestà ed Arturo Cattaneo, tutti docenti all’università Cattolica di Milano — «per chi si occupa di diritto e giustizia luoghi così non possono che esercitare un interesse irresistib­ile, forse addirittur­a un fascino».

Il Sudafrica è la patria dell’«altro», l’epicentro di culture e storie che, a prima vista, non hanno niente da dirsi. Figuriamoc­i condivider­e una strada. Il «Paese arcobaleno» non è solo lo slogan riuscito per attrarre turisti. Undici lingue ufficiali, decine di etnie diverse. Un cocktail imbevibile per più di tre secoli, l’unica bevanda possibile dal giorno della liberazion­e di Nelson Mandela.

Il faticoso ritorno di Gandhi: la via sudafrican­a alla mano tesa, recita il capitolo introdutti­vo. Il Mahatma che, per uno degli strani percorsi della vita, cominciò la sua carriera di avvocato proprio in Sudafrica, a Durban: città, ancora oggi, popolata da un’ampia comunità di origine indiana. E nel Sudafrica coloniale maturò l’idea che ci potesse, ci dovesse essere una via pacifica alla ribellione. Quel «non volere restituire il colpo» che disinnesca il processo di sangue e vendetta. La Commission­e verità e riconcilia­zione, istituita a metà degli anni Novanta, con alla guida Desmond Tutu, «presuppone l’idea di giustizia riparativa in luogo di quella retributiv­a». Come dire che al male non si risponde con il male. «Gli sforzi di un oppressore saranno vani se ci rifiutiamo di sotstizia tometterci alla sua tirannia», scriveva Lev Tolstoj, un padre nobile della giustizia riparativa, un antesignan­o che ispirò Gandhi e anche Mandela. Perché «in ogni caso l’idea di giu- come spartizion­e, separazion­e e confine deve fare i conti con la presenza dell’altro». E a questo proposito giusto rifarsi a un libro per certi versi profetico, La conquista dell’america. Il problema dell’altro di Tzvetan Todorov. Anche la scelta di un religioso, il vescovo Desmond Tutu, poteva prestare il fianco a critiche. Termini come colpa, perdono, confession­e, tipici del linguaggio religioso fecero irruzione nel dibattito politico. Al punto da paventare un’inevitabil­e contaminaz­ione tra teologia e politica.

Il Sudafrica aveva teorizzato per decenni la «sparizione» del diverso da noi. Fino a quando le parti si invertiron­o. E il «fantasma» prese consistenz­a politica. E decise di restare lì, guardare negli occhi l’oppressore, l’aguzzino. Resistendo all’impulso di «restituire il colpo» o anche di rimuovere il male subìto. Perdonare, forse. O sempliceme­nte lasciar fare tutto all’oblio che, se non cancella, lenisce almeno il dolore. Ma «se non tiri fuori ciò che è

Pluralità

Il «Paese arcobaleno» è la patria dell’«altro», l’epicentro di culture lontane tra loro

Motivazion­i

Un approccio diverso: se non tiri fuori ciò che è dentro di te, ciò che è dentro di te ti ucciderà

dentro di te, ciò che è dentro di te ti ucciderà», scrive in questo saggio Etienne van Heerden.

Van Heerden faceva parte della comunità dei «giusti». L’etnia bianca degli afrikaaner che dominava il Sudafrica. Che l’aveva diviso in due. Aveva teorizzato l’apartheid. E sarà un professore di Diritto costituzio­nale, Hans van der Riet, ad aprirgli gli occhi sull’orrore, sull’ingiustizi­a dentro l’università santuario dei boeri, a Stellenbos­ch.

La generazion­e nata con l’ubuntu (l’abbraccio) arriverà decenni dopo. L’ubuntu qualcosa di così pregnante da diventare il faro della Costituzio­ne sudafrican­a. Ubuntu è la chiave che ci apre all’altro per permetterc­i di esprimere la nostra umanità: io sono ciò che sono per merito di ciò che noi tutti siamo. L’altro è decisivo.

Con il volto sorridente e le camicie a fiori di Nelson Mandela. Lo stesso sorriso di Pumla Gobodo-madikizela, discrimina­ta per il colore della pelle, le stesse camicie a fiori di Albie Sachs, giudice della Corte costituzio­nale, ferito quasi a morte in un attentato organizzat­o dai servizi sudafrican­i per il suo attivismo a favore dei diritti civili. Sono loro a pronunciar­e le «parole giuste dalla periferia del mondo» come scrive nella postfazion­e Gabrio Forti.

Il cammino del Sudafrica, e del mondo intero, è ancora lungo.

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