LA STRATEGIA DI DI MAIO PER OCCUPARE LA SCENA
Siamo tornati al proporzionale, si dice, e dunque a inventarsele di ogni tipo per dare vita a una qualsivoglia maggioranza parlamentare e a un governo non si fa peccato. Tutto è accaduto. Per dare forza alla tesi, si va anche a pesca di precedenti antichi. Qualcuno riedita addirittura il cosiddetto «patto della staffetta», siglato (o forse no) da democristiani e socialisti nell’estate del 1986: non solo l’ineffabile professor Paolo Becchi, secondo il quale Luigi Di Maio e Matteo Salvini dovrebbero mettersi d’accordo per governare, con i ministri che vogliono, metà legislatura per uno, ma addirittura Eugenio Scalfari, che suggerisce all’opposto una staffetta tra Paolo Gentiloni e Di Maio. Il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, che non è un provinciale, si ispira invece a De Gaulle, e propone come piano B il semipresidenzialismo alla francese, prendendo spunto dall’apposito disegno di legge appena presentato dal neoparlamentare pd Tommaso Cerno. Ma il (presunto) precedente più gettonato, dopo che Luigi Di Maio, a condizione di essere lui il premier, si è dichiarato disposto a governare sia con la Lega sia con il Pd, è la «politica dei due forni» una formula coniata mezzo secolo fa da Giulio Andreotti per significare che la Dc avrebbe dovuto, a seconda delle circostanze, scegliere se comprare il suo pane al forno della sinistra (i socialisti e magari anche i comunisti) o a quello della destra (i liberali, e perché no, i missini, o almeno l’ala più governista della Fiamma).
Ora. Che Andreotti, senza essere l’incarnazione di Belzebù, sia stato un politico realista sino al limite del cinismo, e anche oltre, è fuori discussione. E non c’è dubbio che, di questo suo ostentato realismo, la teoria dei due forni abbia rappresentato un po’ l’emblema. Ma Andreotti, che impersonava più d’ogni altro la continuità e la intangibilità del potere, compresi i suoi lati oscuri, non voleva rifondare un bel nulla: ancora alla vigilia del crollo della Prima Repubblica,
a chi sosteneva che, procedendo così, l’italia sarebbe finita in serie B, replicava serafico che anche in serie B si giocano bellissime partite. Per quanto molti antropologi della politica sottolineino il suo fare da aspirante democristiano del terzo millennio, il caso di Di Maio è, onestamente, alquanto diverso. Di Maio, «capo politico», come si dice adesso, di un movimento almeno fino a ieri anti sistema, si candida a fondare la Terza Repubblica. Ma soprattutto: il M5S (e l’italia, assai vasta, che lo vota) con la Dc (e l’italia a lungo ancor più vasta che vi si riconosceva) non c’entra niente, come dovrebbe essere evidente a chi abbia chiaro che, in una casa rasa al suolo dal terremoto, non ha molto senso continuare a discutere su dove collocare il ritratto
Coalizioni e contratti Il fatidico «mai soli» di De Gasperi è estraneo ai Cinque Stelle
della nonna.
Senza infliggere ai lettori un sommario riassunto (che pure non sarebbe inutile) della storia repubblicana, basterà ricordare che, sin dal fatidico «mai soli» pronunciato da Alcide De Gasperi quando il suo partito disponeva addirittura della maggioranza assoluta, tutta la politica democristiana, persino nella variante iper realista di Andreotti, si è fondata, non solo per motivi di necessità, sul principio di coalizione, anche dopo che, già nel 1968, questo era entrato in crisi. A Di Maio (e qui finisce sul nascere la sua presunta democristianità) il concetto stesso di coalizione, intesa come faticosa ricerca di un’alleanza tra forze diverse chiamate a trovare i motivi del loro stare insieme in una visione comune, è estraneo, anzi, inviso. Quel che propone, o fa mostra di proporre, indifferentemente alla Lega o al Pd (nessun problema: destra e sinistra non esistono più, lo dice anche Davide Casaleggio) è una cosa ben diversa, e cioè, molto più prosaicamente, un contratto, non troppo dissimile da quelli che comunemente si stipulano tra privati: il programma di governo, e la lista dei ministri, si moduleranno diversamente a seconda di chi raccoglierà l’appello. Che riesca nell’impresa, e prima ancora che questa sia davvero e fino in fondo la sua impresa, e non una tattica per occupare il centro della scena più a lungo di quanto il pur clamoroso risultato elettorale da solo gli consentirebbe, è largamente da stabilire, meglio diffidare di chi la sa lunga. Intanto, però, la novità (e che novità!) c’è tutta. Come si diceva una volta, indietro non si torna: e quindi non siamo tornati, come si lamenta in giro, ai cosiddetti «riti della Prima Repubblica». Sciolto ogni ormeggio con il passato, liquidata l’illusione che il ritorno al proporzionale sarebbe bastato a tenervela in qualche modo legata, la politica italiana naviga, con il conforto del voto popolare e con nuovi capitani, per i mari sconosciuti della post democrazia. Auguri a tutti noi.
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