GIANLUIGI GABETTI
tutti e ci piacque molto. Studiavo al liceo Azuni, dove c’era già Enrico Berlinguer e da lì a poco sarebbe arrivato Francesco Cossiga».
Com’era la Sardegna degli anni ‘30?
«Meravigliosa. Il fascismo la lambiva appena. Spazi immensi e vuoti. I sardi ci invitavano alla caccia al cinghiale. Sono persone di forti sentimenti. Quando nel 1940 tornammo in Piemonte, a salutarci alla stazione erano a migliaia».
Come ricorda la guerra?
«I bombardamenti distrussero la nostra casa di Torino. Riparammo in campagna, a Magliano Alfieri. Nel castello era di stanza un reggimento. Parlo tedesco, e l’8 settembre il colonnello comandante mi chiamò come interprete. I nazisti chiesero la resa incondizionata. Provai un’umiliazione profonda nel tradurre la risposta. Vidi mille italiani deporre le armi davanti a sei tedeschi: finirono tutti nei lager. La gente saccheggiò il castello: portarono via ogni cosa, anche le brande, incitandosi l’uno con l’altro. Una scena mortificante. Ma quando con mio fratello Roberto, il futuro architetto, ci nascondevamo in cantina, tutti in paese sapevano, e nessuno tradì».
Come passavate il tempo?
«A leggere l’enciclopedia di D’alembert e Diderot, di cui avevamo trovato una copia settecentesca nella biblioteca del nonno. Ci interessavano soprattutto le implicazioni pratiche. Imparammo a trarre il salgemma dalle acque stagnanti intorno al Tanaro, che scambiavamo contro merce in tabaccheria. Costruimmo un distillatore per fare con le pesche macerate l’alcol etilico, che fornivamo alla farmacia in cambio di medicine per i parenti anziani. Poi mi stancai e andai a fare il partigiano».
Con quale formazione?
«Giustizia e Libertà. Nome di battaglia Attilio, come mio nonno. Molti studenti, qualche operaio, un paio di avanzi di galera. Ci comandava un capitano dell’esercito, il bravo Bava. Un giorno ci mandò all’assalto: il mio vicino cadde con le braccia larghe, come il miliziano della foto di Capa. Ma non era una pallottola, era un attacco di epilessia».
Lei fu fatto prigioniero.
«Lo fui quasi, dai partigiani comunisti: mi salvò un vecchio piemontese che conosceva mio padre. In marcia verso Asti ci trovammo di fronte i panzer tedeschi: alzarono la bandiera bianca. Trattai con loro, da solo, come l’omino Romiti e Cuccia De Benedetti Agnelli e De Benedetti? Tra loro rapporti buoni ma cauti. Avevano una buona considerazione l’uno dell’altro, ma non si fidavano sino in fondo l’uno dell’altro di piazza Tienanmen. Mi chiesero se era minato».
Lo era?
«Se lo fosse stato, non sarei qui. Ci costrinsero ad andare avanti noi. Anche sconfitti, i nazisti non avevano perso la loro arroganza».
La sua carriera comincia alla Banca Commerciale.
«Ricordo un immenso salone. Mi imposi di imparare tutto in ogni ufficio: libretti di risparmio, conti correnti, cassette di sicurezza. Poi ricominciai al primo piano, dove arrivai sostituendo una dattilografa. Ho mangiato tanta merda, che alla fine però diventa nutriente».
Com’era il capo, Raffaele Mattioli?
«Entrai nella sua stanza buia. Era di schiena: stava mettendo in ordine le pecorelle nel presepio. Si girò, disse: “E tu, che cazzo vuoi?”. Mattioli era sboccatissimo. “Presidente, mi ha fatto venire lei”. “Ah sì. Mi dicono che lei fa un sacco di cose. Ci rivedremo”: mi aveva preso in simpatia».
Poi la chiamò Adriano Olivetti. Come lo ricorda?
«Ero andato da lui quasi di nascosto. Aveva due occhi azzurri da ipnotizzatore. Mi parlò di filosofia, di religione. Poi disse: “Lei deve lavorare qui dentro”. Dopo due settimane mi arrivò una sua lettera».
Cosa c’era scritto?
«Tutto quello che avrei dovuto fare nei dieci anni successivi. Visitare le filiali, studiare lo sviluppo nel Nord America».
A New York lei conobbe sua moglie, americana.
«Andammo in giro una sera d’autunno con Roberto Olivetti su una Oldsmobile decapottabile. Mi presi la polmonite, lei mi accudì. Per ringraziarla la invitai a cena in un locale alla moda, El Morocco. Ci diedero il tavolo accanto all’orchestra. “Non ero mai stata in Siberia prima d’ora” mi disse. Non capii; non sapevo che la “Siberia” nel gergo newyorkese era il tavolo peggiore».
Come recuperò?
«Scoprii che il proprietario si chiamava Perona ed era di Ivrea. Lo chiamai. La volta successiva ci trattarono come principi. Ci sposammo. Bettina fu una grande moglie, scomparsa nel 2008».
Infine la chiamò Agnelli.
il ponte
Con Romiti la relazione era talvolta tesa, ma tra noi ci fu sempre stima personale. Cuccia era per sua natura un dominatore, e io questo non potevo accettarlo
«Mi chiese di visitare il Moma nel giorno di chiusura. Ero nel board e ci riuscii. Ma quando mi propose di tornare in Italia esitai. Fu mia Chi è
● Gianluigi Gabetti, 93 anni, torinese, dopo la laurea in Giurisprudenza comincia a lavorare nella Banca Commerciale Italiana
● Nel 1965 passa dall’attività bancaria a quella d’azienda entrando in Olivetti. Nel 1971, a New York, incontra Gianni Agnelli, e qui comincia un lunghissimo sodalizio professionale
● Gabetti viene nominato Cavaliere del Lavoro nel 1982. Ora è nel cda di Exor S.p.a., nel consiglio della Fondazione Agnelli, è membro del Life trustee of Museum of Modern Art di New York e del consiglio della Deutsche Bank bedire da tutti, Romiti compreso, senza bisogno di dare ordini. E lavorava molto. Si affaticava. L’idea dell’avvocato scansafatiche è una leggenda».
Com’erano i rapporti con De Benedetti?
«Buoni ma cauti. Avevano una buona considerazione l’uno dell’altro, ma non si fidavano sino in fondo l’uno dell’altro».
Lei era contrario a comprare il «Corriere».
«Avevamo già La Stampa. talent scout di giornalisti».
Quando lo vide per l’ultima volta?
«Mi dà pena riparlarne. Soffriva molto. Mi prese la mano e se la portò qui, tra la guancia e la tempia destra. Poi mi fece un saluto militare. Non quello classico con la mano di taglio sulla fronte; più ampio, tipo segnaletica da marinaio».
Lei è finito sotto processo pur di mantenere il controllo alla famiglia.
«Si trattava di impedire che della Fiat venisse fatto uno spezzatino. Con Grande Stevens si trovò la soluzione legale».
Come è arrivato al vertice Marchionne?
«Quando Umberto stava morendo, venne da me Morchio a dirmi che il successore era lui. Al funerale spiegava agli eredi di essere pronto a diventare anche azionista».
E loro?
Ma Agnelli era un
«Ebbero qualche tentazione, ma la respinsero. Allora mi tornò in mente Marchionne, che Umberto aveva portato in consiglio. Non aveva casa a Torino, ci eravamo visti qualche volta a cena con mia moglie. Ai consiglieri dissi: c’è una scelta che vi raccomando, Marchionne, e una che vi raccomando di lasciar cadere. Presero la decisione giusta. Marchionne ha un tratto di genialità».
Com’è il suo rapporto con i nipoti dell’avvocato?
«Credo francamente di essere stato l’uomo più vicino al loro nonno. Adesso è il momento di John. La famiglia è raccolta attorno a lui».
Chi verrà dopo Marchionne?
«Credo non lo sappia neanche lui. Deciderà insieme con Elkann».
Quanto della Fiat resterà in Italia?
«Non lo so. Ormai dobbiamo pensare in termini europei e globali».
E il futuro del nostro Paese come lo vede?
«Male, se non fosse per il legame con l’europa. Più sarà forte e sentito, più ci allontaneremo dal baratro».