Stranieri (brocchi) e italiani urgente cercare il mix giusto
«Giocate solo per voi stessi: siete perfetti per il campionato cinese. Vi pago io il volo...». Parole sante di Attilio Caja, allenatore della Openjobmetis Varese, tecnico preparato, uno che conosce il basket, quello ricco e povero, di vertice e dei bassifondi, là dove si lotta per lo scudetto o per salvarsi. Le sue parole (sottolineate in un blob
d’annata dalla Gazzetta dello Sport) erano rivolte a quei giocatori abituati a piazzarsi davanti a uno specchio ammirati da se stessi, a fregarsene della squadra. Ce ne sono tanti, troppi, quasi tutti sono stranieri, spesso ingaggiati a cottimo, a gettone, sempre attaccati al telefono con il loro agente e a migrare altrove. E gli italiani? Spesso trascurati, a meno che non siano predestinati, giocatori nati campioni. Coloro che sono sì bravi, magari già pronti, ma hanno bisogno di cure, attenzione, tempo, marciscano in panchina, in tribuna, e se delusi fanno smorfie, sapete dove finiscono, in serie A2, forse lì c’è spazio. La situazione è questa: un mare di stranieri brocchi che mai e poi mai avrebbero dovuto trovare spazio nella gloriosa serie A. E cosa fanno Lega e federazione, Bianchi e Petrucci? Litigano. Invece di chiudersi in una stanza, mettersi attorno a un tavolo e uscire solo con una riforma sensata e armoniosa. La luxury tax che s’è inventata la Lega, una tassa sugli stranieri in sovrannumero (quanta confusione, prima 6 a squadra poi 7 adesso forse ancora 6: mah...) è un obbrobrio. Al giocatore italiano, ormai un Panda, non ci deve pensare solo Petrucci ma anche e soprattutto le società di serie A. Con certi stranieri che ingaggiano non si va da nessuna parte, si divertono Milano (forse e solo in Italia) e Brescia col suo ben dosato mix di stranieri e... italiani.