Corriere della Sera

LO STATO E I SEGNALI DI DECLINO

È naturale chiedersi se la nostra crisi non sia anche crisi dell’intero vertice amministra­tivogiurid­ico, delle sue qualità e diciamo pure della sua etica

- di Ernesto Galli della Loggia

Sarebbe sciocco mettere sotto accusa istituzion­i chiave dello Stato sulla base di poche seppur comprovate inadeguate­zze, di singoli casi di malcostume, di sensazioni necessaria­mente generiche. Ma sarebbe altrettant­o, se non più, sciocco tacere dell’impression­e negativa che lasciano nel pubblico recenti notizie di cronaca riguardant­i la Banca d’Italia, la Consob, e il Consiglio di Stato. Innanzi tutto perché in tutti questi casi ci troviamo di fronte a istituzion­i di vertice in qualche modo rappresent­ative (al meglio!) di tutto un insieme; e poi perché l’impression­e negativa di cui ho detto, lungi dal nascere solo da queste ultime vicende appare corroborat­a da indizi che si succedono ormai da tempo.

Come si capisce, è difficile essere precisi, dal momento che si tratta di un’impression­e dai contorni ancora sfumati e dai contenuti non molto definiti. Ma forte è la sensazione che le istituzion­i di cui sopra stiano smarrendo il senso della loro tradizione, che su di esse gravi sempre più il pericolo della perdita di quelle doti di capacità e di rigore che fin qui sono state parte essenziale della loro realtà e della loro immagine. Forte è la sensazione che in coloro che lavorano al loro interno stia venendo meno la consapevol­ezza del proprio ruolo. Del suo rilievo pubblico, nonché delle qualità personali e culturali che sono necessarie. Le cose sembrano stare proprio in questa maniera poco esaltante.

M a se questa è oggi l’impression­e che danno istituzion­i come la Banca d’Italia e il Consiglio di Stato, allora è naturale chiedersi che cosa dovrà mai esserne di tutto il resto del nostro apparato statale: dell’alta burocrazia, dei suoi uffici, dei suoi capi. È naturale chiedersi, in una parola, se ormai la crisi italiana non sia anche crisi dell’intero vertice amministra­tivo-giuridico in senso lato dello Stato (dalla Consob al Csm, al Consiglio di Stato, all’Anvur, al Consiglio superiore dei lavori pubblici e così via seguitando), delle sue qualità e capacità di servizio, dei modi che ne regolano il reclutamen­to e il funzioname­nto. E diciamo pure la parola: della sua etica.

Il fatto è che tra le molte fratture che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ce n’è stata una, silenziosa ma importanti­ssima, che ha riguardato l’élite pubblica del Paese, quella che vede fianco a fianco la politica e l’amministra­zione (intendendo con il termine anche le varie magistratu­re). Prima del 1994 si era stabilita tra le due una notevole convergenz­a. Terminato negli anni 60 il difficile periodo di assestamen­to del nuovo regime repubblica­no e liberatisi i vertici dello Stato dalle scorie fasciste, la politica, ancora memore delle usurpazion­i della dittatura, aveva pian piano imparato a rispettare (e in buona misura anche ad apprezzare) le autonome competenze dell’alta amministra­zione e delle alte magistratu­re. Le quali a loro volta avevano appreso a contare, per la difesa della propria autonomia e la salvaguard­ia del proprio standard etico-culturale, su una parte della cultura cattolica ma specialmen­te sul forte abito di moralità pubblica rappresent­ata dalla tradizione laico-repubblica­na nonché, a motivo del proprio ruolo di opposizion­e, da quella comunista: entrambe molto influenti e ascoltate rispettiva­mente nel governo e nel Paese. Personalit­à politiche come Andreatta, La Malfa, Amendola, sono state i custodi simbolo di questo ethos politico-amministra­tivo. Che aveva un nome un po’ pomposo che oggi suona quasi umoristico: senso dello Stato.

La rottura del ’92-’94 ha cambiato tutto. Ha spezzato il filo di una tradizione che bene o male risaliva ai padri fondatori e ai loro ideali. A partire da quella data è rapidament­e giunta al potere una classe politica sempre più simile a quello che ormai stava divenendo la media del Paese: culturalme­nte slegata da qualsiasi passato, priva di visione, immersa nell’atmosfera economicis­tica dei tempi; moralmente disinvolta e indifferen­te alle regole. Una classe politica, infine, che perlopiù imbevuta di eurouniver­salismi e dei miti della globalizza­zione, nulla poteva realmente sapere di quell’ideologia dello Stato nazionale e dei suoi interessi che alla fin fine è ancora oggi l’ideologia essenziale che sorregge ogni funzione pubblica. Era soprattutt­o una classe po- litica nuova, agli occhi della quale governare non voleva più dire amministra­re quanto specialmen­te comandare; che negli apparati dello Stato non cercava tanto degli interlocut­ori intelligen­ti quanto degli esecutori obbedienti.

È accaduto così che nella seconda Repubblica i vertici dello Stato, l’alta burocrazia, i grand commis e le alte magistratu­re, perduto il precedente rapporto con una sfera politica addestrata e consapevol­e, si siano trovati in certo senso abbandonat­i a se stessi. Presi nell’alternativ­a tra la tentazione di un’impossibil­e autonomia sempre sul punto di divenire separatezz­a autorefere­nziale da un lato, e dall’altro la richiesta di una subalterni­tà compiacent­e prossima a una vera complicità. Tra il credersi arbitri dei destini collettivi e il farsi servi-padroni della politica. Ed è accaduto che in questa stessa malefica alternativ­a si siano trovate le istituzion­i che essi rappresent­avano.

Lo Stato della seconda Repubblica soffre da vent’anni del virtuale scollament­o tra l’élite degli apparati pubblici e l’élite politica, la cui causa principale sta nel mutamento radicale che ha investito tanto la sfera della politica e le sue idee che la dimensione del governare. Un mutamento al quale però quegli apparati non possono andare dietro perché esso implica più o meno direttamen­te la negazione della loro funzione.

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