Padre di tre figli accusato dal collega «Morti a 300 euro»
La denuncia in tv: inietta aria in vena
Negli ultimi tempi lavorava sulle colline dell’Etna per raccogliere arance, come uno dei tanti operai assunti a giornata nella piazza di Adrano. E forse nessuno dei suoi compagni di lavoro avrà pensato che Davide Garofalo, moglie e tre figli, sia stato una rotella dei clan mafiosi all’opera sotto il vulcano, disposto a tutto, anche ad uccidere i malati sulla sgangherata ambulanza con cui avrebbe dovuto portarli dall’ospedale di Biancavilla a casa, anziché al cimitero.
Rotella di un ingranaggio mafioso articolato su violente dinastie della provincia di Catania: Tomasello, Mazzaglia, Toscano, Sant’Angelo. Famiglie che però hanno finito per espellere o sospendere dall’ingranaggio un uomo diventato ingombrante dallo scorso maggio, dopo il servizio mandato in onda dal programma «Le Iene». Quando in tv saltò fuori l’identikit dell’assassino vestito da barelliere. Pronto come un avvoltoio a mostrarsi affabile con gli afflitti parenti di malati ritenuti incurabili.
Un modo per accaparrarsi il trasferimento dalla corsia verso casa, un tragitto segnato dalla iniezione della morte. Come adesso apprende sconvolta la moglie di Garofalo, una quarantenne che giura di non sapere niente al capitano dei carabinieri Angelo Accardo, decisa a proteggere i suoi tre figli, alle medie il più grande, coscienti che la loro vita sia ormai sconvolta.
Sette mesi dopo, indagini e riscontri consentono alla Procura di Catania di dare un volto all’identikit. Quello di un balordo che ha considerato niente la vita degli altri, vendendola per 300 euro alle agenzie di pompe funebri su indicazione di quelle «famiglie», spiazzate dalla comparsa sulla scena dei tre delitti accertati e dei 50 casi sospetti di un testimone di giustizia.
Fatica infatti Garofalo a discolparsi perché conosce bene il suo principale accusatore, un ragazzo di 28 anni assunto dai clan su quella sua stessa ambulanza in cui lui dava la morte ai malati che gli venivano affidati.
Un ragazzo senza nome per la cronaca, diventato prova numero uno dell’inchiesta con le rivelazioni fatte in televisione prima ancora che ai carabinieri, con sorpresa di Rosario Cunsolo, l’animatore dell’associazione antiracket «Libera Impresa», la sua ombra fra caserma e tribunale, certo della necessità di una protezione: «È davvero a rischio».
È lui che ha descritto i tre casi in cui Garofalo infilava la siringa nella cannula del malato, quella utilizzata per i farmaci, iniettando aria. Finché un giorno vide morire così il padre di un suo amico. Pentito, chiamò «Le Iene».
Il resto è un percorso che dalla televisione l’ha ricondotto fra gli inquirenti. Con i carabinieri impegnati a radiografare la vita di Garofalo, a tenere d’occhio il modesto appartamento al centro di Adrano (in provincia di Catania), una vecchia Cinquecento ancora parcheggiata sotto casa, apparentemente mollato dai clan che non lo hanno più fatto lavorare nel settore. Anche perché denunce ancor più dettagliate frattanto sono arrivate da altri due giovani, Giuseppe e Luca Arena, i titolari di un’impresa di pompe funebri tartassata dai boss e costretti a versare quei 300 euro a Garofalo per ogni malato ucciso.
Un cinico circuito interrotto dopo decine di casi sospetti di malati annientati con il metodo che la mafia sperimentò nel 1948.
Quando il direttore dell’ospedale di Corleone, «don» Giuseppe Navarra, medico e padrino del paese, uccise con una siringata d’aria il piccolo Giuseppe Letizia, 14 anni, perché testimone di un delitto. Settant’anni dopo una mafia stracciona s’affida a un balordo per spegnere malati e vendere funerali.
Mollato dai boss I clan lo avevano già abbandonato al suo destino dopo il servizio trasmesso dalle Iene
In pericolo L’uomo che ha parlato ora è considerato «a rischio ritorsione» da parte della criminalità