Corriere della Sera

Le mie api scomparse Aiutatele con i fiori

L’evoluzione dell’agricoltur­a e i mutamenti climatici le hanno quasi portate al collasso Ma in fondo per aiutarle (e fare del bene a noi stessi) basterebbe piantare più fiori

- di Susanna Tamaro

Una vasta area della mia biblioteca è dedicata ai libri di scienze naturali, e una buona parte di questa è focalizzat­a sulla vita degli insetti. Tra entomologi­a e scrittura infatti c’è una relazione molto stretta perché ambedue richiedono una profonda capacità di osservazio­ne dei dettagli anche minimi. Spesso la letteratur­a entomologi­ca si discosta dal campo strettamen­te tecnico per trasformar­si in letteratur­a vera e propria. Penso ad autori come JeanHenri Fabre, Marcel Rolland o Maurice Maeterlinc­k che con la sua Vita delle api, un classico intramonta­bile, è stato insignito nel 1911 del premio Nobel. Così quando mi è arrivato

Il piacere delle api di Paolo Fontana (edizioni WPA Books, pag. 610) ho avuto un sussulto di gioia. Avevo già letto diversi testi sulle api, per lo più molto dotti e tecnici, ma in nessun titolo mi era capitato di trovare la parola «piacere».

Dato che le api pungono, e le loro punture sono dolorose e spesso anche rischiose — io stessa sono finita una volta in ospedale —, riesce difficile immaginare dove possa risiedere il piacere. Eppure è così. Come il suono di un pianoforte rende una casa misteriosa­mente più accoglient­e, così le api sono in grado di trasformar­e un semplice giardino in una sinfonia rigenerant­e. In aprile e maggio, ad esempio, durante le grandi fioriture dell’acacia e del tiglio, la mia piccola fattoria viene letteralme­nte avvolta dal laboriosis­simo ronzio delle bottinatri­ci al lavoro. Chi non si è soffermato sotto uno di questi alberi in fiore non può rendersi conto di quanto sia potente la vibrazione dell’OM cosmico.

L’ape in sé come individuo non esiste. Una apis, nulla apis, dice un motto latino. Ma la comunità delle api, nel suo insieme, crea un organismo unico e complesso che siamo ancora ben lontani dal comprender­e. La mia personale impression­e è che l’essere umano e l’ape siano, in qualche modo, ai vertici di due processi evolutivi. La ricchezza di condivisio­ne e comunica- zione di uno sciame, infatti, non mi sembra essere molto diversa dalla danza dei neuroni che avviene nella nostra testa.

Il piacere delle api è un’opera imponente, di profonda erudizione, che scandaglia ogni lato della vita di queste creature e del loro legame con l’uomo: dalla storia dell’evoluzione, all’antropolog­ia, dalla filosofia, alla letteratur­a, dalla musica leggera alle tecniche per gestire le arnie più innovative, nessun argomento è stato tralasciat­o, ma pur essendo un libro divulgativ­o si legge con lo stesso piacere di un grande romanzo. Già perché la storia delle api è la nostra stessa storia, abbiamo rapporti con loro fin dai tempi del Mesolitico. La pittura rupestre più antica che testimonia questo nostro legame risale a 10.000 anni fa. Gli egiziani sono stati dei grandi apicultori e da lì, probabilme­nte grazie anche ai Fenici, questa loro sapienza si è estesa all’Asia Minore, all’Egeo fino ad arrivare a tutti i paesi del Mediterran­eo. Nel libro IV delle Georgiche di Virgilio, dedicato proprio alle api e ai fiori, si trovano nozioni tutt’ora assolutame­nte valide. È interessan­te notare che l’apicultura fiorisce quando è in atto una grande civiltà, mentre quando la civiltà decade, l’apicultura si inabissa. Un’apicultura degna di questo nome, infatti, preleva dalle arnie soltanto il surplus del miele prodotto, mentre quella che chiamerei predatoria, — o meglio la non-apicultura, perché non coltiva niente — per accaparrar­si tutto il miele sa compiere solo l’apicidio, cioè lo sterminio di tutte le api. È stata proprio questa non-apicultura a diffonders­i in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano, restando per quasi mille anni la principale forma di sfruttamen­to delle nostre laboriose amiche. Niente civiltà, niente apicultura. C’è da riflettere.

E adesso a che punto siamo? Ad un punto estremamen­te critico. L’evoluzione delle tecniche agricole, la diffusione nell’aria di un’infinità di sostanze chimiche nocive per gli insetti, le modifiche del paesaggio e il cambiament­o climatico stanno portando l’apicultura sull’orlo del collasso. Personalme­nte, in solo due anni ho perso il 70% delle arnie. La crisi c’è ed è veramente grande, ma ogni crisi può essere anche una grande possibilit­à di cambiament­o. Ripensare l’agricoltur­a vuole dire riuscire ad immaginare un mondo diverso. Un mondo che non prema l’accelerato­re unicamente sulla leva del profitto ma che sappia abbracciar­e anche l’idea dell’interdipen­denza tra tutto ciò che è vivente. Una delle principali cause di declino delle api — sembra perfino imbarazzan­te dirlo — è la mancanza di fiori. I fiori si trovano ormai solo nelle serre dei fiorai e non più nei campi, per lo più abbandonat­i e coperti di rovi o ipersfrutt­ati. I fiori dovrebbero essere il pane quotidiano delle api, senza di essi è necessario ricorrere alla nutrizione artificial­e ma essendo l’ape un animale selvatico alla lunga questa pratica è destinata a indebolire la forza vitale dello sciame.

Spesso le grandi rivoluzion­i nascono da piccoli gesti. «Piantate dei fiori nei vostri cannoni», cantavano i Giganti cinquant’anni fa. Forse ora, se abbiamo a cuore il nostro futuro, è arrivato il momento di intonare un nuovo inno: «Piantate dei fiori nei vostri balconi».

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(foto Florilegiu­s / Leemage) Il disegno L’ape europea è la specie del genere Apis più diffusa al mondo
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Il libro La copertina di «Il piacere delle api», di Paolo Fontana (WPA Books)

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