«Cari criticoni gastronomici, scrivere di cibo non è un hobby»
IL DIBATTITO
Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul foodwriting. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerato ancora giornalismo di serie B, nonostante racconti la vita di tutti noi. Ogni venerdì, dunque, pubblichiamo il contributo di foodwriter italiani e stranieri che ci spiegano rima che io cominciassi a scrivere di cucina, tanti anni fa, la scrittura di food nei giornali era spaccata in due: da una parte «le ricettare», signore munite di voluminose collezioni di ricettari delle più varie specie e dotate della capacità di compilare estratti tematici più o meno accattivanti; dall’altra «gli omi de panza», critici gastronomici pronti a inanellare il proprio corpo con strati concentrici di grasso pur di censire e recensire lo stato di salute della ristorazione italiana. Da una parte il fare delle ricette, dall’altra il dire delle recensioni. Notare la divisione: il femminile relegato all’esecuzione, con tanto di matterello e mani in pasta; il maschile votato alla critica, seduto a tavola in doppiopetto o completo di velluto e servito e riverito.
Invece di scegliere tra il dire e il fare, andai avanti per la mia strada: il raccontare. Soprattutto oggi, credo che chi scrive di cucina, gastronomia, e ristorazione debba in primo luogo saper raccontare, e cioè saper cogliere l’universale che c’è in quella preparazione di cucina, in quella visita a quel ristorante proprio in quel giorno proprio con quel menu, nella passione di quel tal produttore, e raccontarlo, rendendo la propria esperienza condivisibile, e dunque utile.
Nel 2009, mi sono fatta un regalo: dopo 30 anni ho smesso di scrivere per i giornali e ho realizzato un vecchio sogno, avere un ristorante. In un mio libro, Le cuoche che volevo diventare, avevo scritto che che cosa significa, per loro, scrivere di cibo. Dopo Michael Pollan, Amanda Hesser, Paolo Marchi, Bee Wilson, Maria Teresa Di Marco, Gigi Padovani, Guido Tommasi ed Helena Attlee proseguiamo con Roberta Corradin. l’avrei aperto a sessant’anni a Samoa. La vita ha detto: 48 anni, Donnalucata, nella Sicilia di Montalbano. Non era «prendere o lasciare», ma ho preso.
Questo punto di osservazione rovesciato mi ha dato e continua a darmi la chiave per capire cosa è, e cosa non deve essere, scrivere di cucina, oggi. Chiunque può scrivere una ricetta o una recensione, e pubblicarla online. Siamo tutti critici, o meglio: siamo tutti criticoni. Il criticone si distingue perché non sa uscire dall’ambito della propria esperienza personale (per esempio, al ristorante, non guarda cosa succede agli altri tavoli, chiuso dentro il proprio orizzonte), perché non considera altri metri di valutazione dai propri, spesso sbilanciati sul versante quantitativo (quanto ho mangiato/quanto ho speso); perché non scrive per dare un servizio e delle informazioni quanto per sfogarsi o per farsi bello: c’è gente, dico davvero, che si presenta nei ristoranti come «critico gastronomico» perché ha il badge di senior contributor su un qualche sito amatoriale.
Il criticone non ha una formazione alla scrittura e quindi va alla grande con anacoluti, refusi da sindrome del T9 e sintassi alla come viene, viene, tanto che certe volte bisogna fare esegesi del testo, come per certi versi della Divina Commedia, ma quella è letteratura del Trecento, non spam del terzo millennio.
Dulcis in fundo, la natura umana: a volte anche chi fa è invidioso del fare altrui. C’è lo chef che da anni critica i colleghi credendosi coperto dal nickname, ignaro di apparire con nome e cognome ai suoi contatti Facebook; e il mega manager con oltre mille recensioni all’attivo, in gran parte scritte la notte di un primo gennaio di un anno evidentemente cominciato in una vuota solitudine. L’unica via che resta al lettore, per capire chi è degno di fede e chi no nel mondo della scrittura amatoriale di food (e non solo), è imparare a distinguere l’approccio critico di chi ha masticato anche un po’ di Kant dall’approccio criticone di chi mastica tout court.