LA MINACCIA DEL TERRORE COINVOLGE TUTTI ALLO STESSO MODO
Sforzo Un Isis costretto ad abbandonare Raqqa e Mosul potrebbe moltiplicare le azioni a forte valenza simbolica
Errore Sopravvive da noi, qua e là, la percezione illusoria che il flagello jihadista resterà un problema soprattutto per altri in Europa
E’«Rumiyah» — «Roma», in arabo antico — il titolo della pubblicazione di propaganda che l’Isis ha iniziato a diffondere sul web in aggiunta alla già nota «Dabiq». Stessa impaginazione accurata, stessa abbondanza di immagini di atrocità, stessi testi deliranti ma con un taglio meno estremo, in inglese, francese, tedesco, turco. Non è una novità che lo «Stato Islamico» sia abilissimo nel servirsi degli strumenti della comunicazione occidentale: «Dabiq» è il nome della località al confine fra Siria e Turchia da cui, secondo Maometto, partirà lo scontro finale vittorioso fra «romani» e musulmani. Qui il salto di qualità è tuttavia evidente e, a fugare ogni dubbio, la testata riprende una frase del terrorista Abu Hamza: «per Allah, non ci fermeremo nel nostro jihad se non sotto gli ulivi di Rumiyah». L’intensificazione della propaganda multilingue sarebbe secondo alcuni il segno che l’Isis, in difficoltà per la perdita di molti dei suoi territori, starebbe elaborando una strategia di reclutamento a più vasto raggio, modulando il messaggio attraverso campagne mirate. In una simile situazione, quale valore simbolico più alto dell’appello ad attaccare il nemico colpendolo al cuore della «capitale crociata»?
L’obiettivo è il centro della cristianità e non la capitale di uno Stato laico, ma distinzioni di questo tipo nell’ottica islamista non significano nulla: sono apostati ed infedeli entrambi. Ci siamo a lungo cullati nell’idea che la nostra relatività perifericità potesse farci schermo al terrorismo internazionale: il «lodo Moro-Giovannone» fra l’Italia e l’Olp degli anni settanta, anche se mai ufficialmente riconosciuto, fece sì che il territorio italiano non venisse coinvolto nelle azioni della guerriglia palestinese; per una sorta di paradossale proprietà transitiva c’è chi ha pensato che la sua logica potesse estendersi ora al terrorismo islamista. Aiutato in ciò dal fatto che l’assenza di comunità mussulmane di grosse dimensioni riduceva l’ampiezza dei potenziali bacini di raccolta. Dalla convinzione che una proiezione internazionale debole e una politica estera attenta a non esasperare i contrasti, rafforzassero la percezione di una sostanziale irrilevanza e riducessero, di conseguenza, l’interesse di colpire obiettivi italiani. Non è più così e il risveglio è stato doloroso: siamo diventati un Paese dagli interessi economici diversificati, parte attiva di una realtà internazionale che presenta vantaggi e costi, e ci siamo trovati in prima linea quasi senza accorgercene.
La situazione italiana conserva una sua specificità, come ha rilevato la commissione voluta dal governo Gentiloni. Le comunità mussulmane sono molto cresciute, ma non hanno la dimensione di altri Paesi europei; la dispersione territoriale impedisce la creazione di banlieues come quelle di Parigi o Bruxelles, in cui è facile il proselitismo; la radicalizzazione attecchisce con maggiore difficoltà in un contesto che rimane più tollerante. Tutto vero, ma attenzione: è probabilmente ancora difficile montare in Italia operazioni a vasto raggio, che richiedono una rete articolata di appoggi e coperture, ma lo è meno per quelle di «lupi solitari», come confermano gli esempi più recenti. Un Isis costretto ad abbandonare Raqqa e Mosul cercherebbe di moltiplicare ovunque le azioni a forte valenza simbolica, per mantenere la sua credibilità. Ed è qui che «Rumiyah» potrebbe tornare in campo con forza.
L’avversario che abbiamo di fronte è profondamente diverso tanto dal terrorismo di matrice politica, quanto dalla ragnatela mafiosa, su cui abbiamo maturato a nostre spese una capacità
di contrasto di prim’ordine, che è preziosa ma non basta: se tecniche e strumenti possono essere simili, le motivazioni sono diverse. Ideologiche nel primo caso, e criminali e di clan nel secondo, sono composte qui da un intreccio di identità culturali, intransigenza religiosa, globalismo settario e riscatto sociale difficile da decifrare. La prima priorità è che, per affrontare un fenomeno ad un tempo transnazionale e antitetico alla concezione dello Stato liberale moderno, è indispensabile uno sforzo che metta davvero in comune le conoscenze e possa dare un senso alla prevenzione, prima ancora che alla repressione. È un compito innanzitutto per i servizi di intelligence, da sempre i più restii a lavorare insieme, a livello nazionale come internazionale: ma qui, se non riusciremo ad operare tutti insieme un vero salto di qualità, non arriveremo a risultati concreti.
Sopravvive poi da noi, qua e là, la percezione illusoria che il flagello islamista potrà colpirci con azioni puntuali, ma resterà un problema soprattutto per altri in Europa. È un errore pericoloso, che richiede un mutamento di approccio culturale: dobbiamo essere consapevoli che la minaccia terrorista non è scomponibile e ci coinvolge tutti allo stesso titolo.