Corriere della Sera

«Così inventai il mio cinema»

L’attore James Franco incontra il maestro. Il colloquio in una raccolta di interviste pubblicata da Minimum fax Bertolucci e l’esordio: lo devo a Pasolini, ma trovai la formula per essere me stesso

- Di James Franco

Un’intervista con Bernardo Bertolucci a casa sua a Roma. Sono stato tre settimane a Roma con Paul Haggis e Mila Kunis per girare un film, e con noi c’era anche Ashton Kutcher: lui e Mila erano perseguita­ti dai paparazzi. Io e la mia assistente abbiamo festeggiat­o il Ringraziam­ento nella loro villa. Poi Tiziana, la mia traduttric­e italiana, mi ha invitato a cena a casa di Bertolucci, che è suo amico. Ho fatto quest’intervista prima di cena. Ci siamo seduti nel suo studio, Bertolucci era in sedia a rotelle.

Avrai già raccontato di te milioni di volte, degli inizi da poeta e poi da regista, ma a me interessa comunque, perché ho studiato sia scrittura creativa che regia. M’interessa il periodo in cui scrivevi poesie, giovanissi­mo, prima di lavorare con Pasolini, e da lì arrivare alla regia, dico bene? O cos’altro è successo? Tuo padre era uno scrittore?

«Certo. Mio padre era un poeta, abbastanza conosciuto in Italia. Insegnava nelle scuole ed era un poeta. Per me è stato naturale iniziare a scrivere poesie. Poi a ventun anni ho pubblicato un libro, ma già prima di allora Pasolini era un grande amico di mio padre, perché mio padre gli aveva fatto pubblicare il primo romanzo, Ragazzi di vita. Pasolini si è trasferito nello stesso palazzo in cui abitavamo noi, e un giorno, quando avevo vent’anni, l’ho incontrato davanti la porta e mi ha detto: “Ehi, a te piacciono i film, giusto?” Io ho detto di sì, e lui ha continuato: “Perché girerò un film.E voglio che mi fai da assistente alla regia”. E io: “Cosa?”. “Sì, faccio un film, si chiamerà Accattone”. Io: “Ma Pier Paolo, non ho mai fatto l’aiuto regista”. E lui: “E io non ho mai diretto un film”».

È stato il tuo primo film.

«Sì, ma ero già appassiona­to di cinema. Anni prima ero andato alla Cinémathèq­ue Française a Parigi, agli esordi della Nouvelle Vague. Erano gli inizi, gli anni del primo Godard, e di Truffaut... Avevo diciotto, diciannove anni, avevo superato l’esame di maturità, e i miei mi avevano regalato un po’ di soldi. Arrivato a Parigi, invece di andare al Louvre, andavo tutti i giorni alla Cinémathèq­ue, che è stata l’università di tutti, Godard, Truffaut, Rohmer eccetera. Tutti loro. Amavo quel tipo di cinema. A diciannove anni a Parigi ho visto Fino all’ultimo respiro».

Che anno era?

«Aspetta, te lo dico con esattezza... 1960».

Wow.

«Ho già più di sessant’anni, quello è stato l’inizio».

Così è iniziata.

«Così è iniziata, già. Lavorare con Pasolini era imparare a dirigere. Vedevo un uomo fantastico, un genio che scriveva poesie, romanzi, saggi. Era fantastico, non so come facesse... era immenso, incredibil­e. Lavorava come un matto ma non sembrava che lavorasse. E la cosa più bella è stata vedere quest’uomo inventare il suo cinema. Pasolini non aveva una cultura cinematogr­afica come la mia, che andavo sempre a vedere film. E io vedevo un regista nascere davanti ai miei occhi, e non un regista qualunque... stiamo parlando di Pasolini».

Cosa faceva sul set di diverso rispetto a un regista già rodato? Non usava attori profession­isti e roba del genere?

«Niente attori profession­isti. Ma era sicuro di quello che faceva. Il suo modello era la Giovanna d’Arco di Dreyer e quei meraviglio­si primi piani dei monaci. Diceva: “Non conosco il cinema, per cui continuo a seguire la mia arte e conoscenza”. Diceva: “La cosa che mi piace di più è la pittura toscana del Quattrocen­to, che non ha niente di psicologic­o, e per certi versi è molto epica”. E un giorno, la seconda settimana di riprese, ha detto: “Qui voglio usare un dolly”. E ho visto queste rotaie che venivano sistemate per il carrello, i macchinist­i che le mettevano, ed è stato il primo movimento del film. Poi il film ha avuto un enorme successo. Pasolini aveva scritto un soggetto che si chiamava La Commare secca, ma in quel momento voleva fare Mamma Roma. Il produttore che aveva i diritti del soggetto ha chiesto a Pier Paolo: “Ok, tu non vuoi farlo, quindi a chi lo facciamo fare?”. E lui ha detto: “Fallo fare a Sergio”, ovvero Sergio Citti, che aveva già lavorato con lui e conosceva alla perfezione il romanesco, “e a Bernardo”. Ho scritto la sceneggiat­ura insieme a Sergio Citti, che era una persona brillante, e in un mese, perché i tempi all’epoca erano velocissim­i, avevamo la sceneggiat­ura pronta. Il produttore l’ha letta, e gli è piaciuta moltissimo. A quel punto mi ha chiesto: “Vuoi dirigerlo, giusto?”. Io: “Sì”. Lui: “Ok, lo dirigerai tu”. Le gambe mi tremavano, e tre mesi dopo ho fatto il mio primo film. La sceneggiat­ura era pensata per Pasolini e quando mi hanno chiesto di dirigerlo volevo cambiare tutto. Per cui il milieu, l’ambientazi­one era di Pasolini, ma lo stile era completame­nte mio. Anche perché volevo differenzi­armi da Pasolini. Ed è il motivo per cui nei miei film c’è sempre la macchina da presa in continuo movimento».

Il movimento nei tuoi film è nato da qui?

«Sì».

Per usare la macchina da presa in modo diverso da Pasolini?

«Sì, in modo completame­nte diverso. La differenza era quella».

Già a quell’età l’avevi capito. Wow. Ed era la prima volta che dirigevi degli attori?

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