Fino al 19 febbraio una retrospettiva a La Spezia Frangi, se la vita è un arcipelago l’artista è (soltanto) un marinaio
Iprimi viaggi per mare? Da ragazzi si andava al porto, ci si sedeva su un muraglione e con le gambe raccolte ad angolo su cui appoggiare le braccia e il capo, si fissava l’acqua, seguendola sino a quando spariva all’orizzonte; era allora che ci si imbarcava su improbabili velieri tratti da letture recenti. L’avventura era assicurata. Per molti, l’acqua ha sempre esercitato un fascino, un’attrazione straordinaria, quasi istintiva, sia che fosse tranquilla, leggermente mossa o anche spumeggiante sino, via via, a diventare minacciosa. Al porto ci si stava delle ore, rapiti dalle onde e dai sogni, quasi in trance. Si partiva e si tornava, dopo avere sintetizzato, in un paio d’ore, avvenimenti di mesi o di anni. «El mar, la mar», cantava Rafael Alberti (in castigliano, il mare è maschile e femminile).
E al mare si è ispirato Giovanni Frangi per dipingere la serie di quadri in mostra al Camec (Centro arte moderna e contemporanea) di La Spezia (aperta sino al 19 febbraio), curata da Marco Meneguzzo. L’acqua e il suo habitat: isole, laghi, fiumi, cascate, paesaggi acquatici, pesci che guizzano nel blu, acquari. E arcipelaghi, una serie di lavori di grande formato (di oltre due metri), realizzati appositamente per questa rassegna, con paesaggi che danno su quel Golfo dei Poeti dove il baronetto romantico inglese Percy Shelley (1792-1822) trascorse gli ultimi mesi di vita, a Villa Magni, fra San Terenzio e Lerici. L’autore dell’Ode al vento occidentale morì annegato, nel naufragio della sua goletta, nel mare dinanzi a Lerici e trovarono il suo corpo sulla spiaggia di Viareggio dieci giorni dopo: non aveva ancora compiuto trent’anni. Shelley, ma anche lord Byron ed Eugenio Montale.
L’esposizione di La Spezia — retrospettiva con una quarantina di lavori dal 2002 (anno in cui le isole irrompono prepotentemente nella sua tavolozza) a oggi — segue, a pochi giorni di distanza, la chiusura, all’Istituto centrale della Grafica, della mostra romana dove grandi ninfee (che nulla hanno a che fare con quelle di Monet) riempivano enormi spazi d’acqua. Frangi è di Milano (1959) ed è non figlio, ma «nipote d’arte», essendo cresciuto con lo zio materno Giovanni Testori (magnifico scrittore, ma anche pittore), cui deve i primi incoraggiamenti. Dopo l’Accademia di Brera, l’esordio, a 24 anni, in una collettiva di giovani artisti alla Besana; cui seguono una personale alla Bussola di Torino e, tre anni dopo, un’altra alla Bergamini di Milano. Eccellente l’inizio, altrettanto il seguito. Partenza tradizionale, accademica, ma sguardo lontano; sino a quando Frangi non riesce a creare un linguaggio proprio. E lo fa con uno scandaglio rivolto in più direzioni, con mostre a tema, ma partendo sempre da un dato reale. «Scatto sempre delle foto e talvolta ci dipingo sopra, mentre dipingo gli stessi soggetti», spiega a Meneguzzo. Una scelta.
Mostre a tema, cicli. Il titolo dato a questa ligure è Usodimare. Così veniva chiamato «il navigatore Antoniotto da Noli che, nel XV secolo, partecipò all’esplorazione della costa d’Africa Centrale, del fiume Gambia, delle isole di Capo Verde e Bissagos». Frangi esplora sì l’acqua delle coste che da Porto Venere arrivano alle Cinque Terre, ma anche isole e isolotti immaginari, mete dove approdare momentaneamente e da cui ripartire. Una sfida continua? Può darsi. Che si manifesta non solo con il rendere in maniera diversa la rifrazione della luce, i movimenti ritmici delle acque, i fondali blu dove ogni tanto penetra il chiarore della luce, ma anche ricostruendo con la fantasia personaggi e protagonisti.
È come se Giovanni, a bordo di un traghetto, guardasse da un oblò lo scorrere di immagini che, naturalmente, è impossibile fermare. Più o meno come avviene quando si viaggia su un treno e si guarda dai finestrini. Differenze? La velocità: nel primo la visione cambia lentamente; nel secondo, in un attimo.
Talvolta Frangi passa dal naturale all’artificiale, alla scena costruita. La visione viene fermata con uno scatto: il luogo si staglia in lontananza, l’acqua resta immobile in primo piano. Segue la trasposizione o la sovrapposizione di colori che «ricreano» la scena. Perché non aggiungere anche «ipotetici personaggi»? Titoli: Giovanni a Palmarola, Arbasino a Formentera, Ginette a Samos, Chatwin a Patmos. Ma avviene anche il contrario: «Una grande Cascata alpina (2005) precipita tra sassi di gommapiuma».