Corriere della Sera

TESTACODA POLITICO SULLA A3

La Salerno-Reggio Calabria è divenuta da decenni simbolo dell’inconclude­nza italiana nonché del fallimento delle opere pubbliche, in particolar­e al Sud. La festa del «completame­nto» è in programma il 22 dicembre. Ma per la messa in sicurezza definitiva se

- di Paolo Mieli

La festa del «completame­nto» è programmat­a per giovedì prossimo, il 22 dicembre. Ma si può dire che porti fortuna annunciare la fine «definitiva» dei lavori della A3, la celeberrim­a autostrada Salerno-Reggio Calabria? Non sembra. Nel settembre 2010, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sostenne che il famoso «completame­nto» dei lavori per l’autostrada divenuta da decenni simbolo dell’inconclude­nza italiana — nonché del fallimento delle opere pubbliche, in particolar­e al Sud — era «imminente». Di lì a poco più di un anno fu però costretto alle dimissioni e nel trambusto che ne seguì nessuno ebbe cuore di chiedergli ragione di code, intoppi, cantieri aperti e deviazioni che ancora affliggeva­no quella via maestra dell’Italia meridional­e. Nell’estate 2012, Corrado Passera, all’epoca ministro del governo guidato da Mario Monti, fu più preciso e disse che a dicembre del 2013 l’impresa sarebbe andata a termine e che l’evento sarebbe stato celebrato con adeguata solennità. Poi, nel 2013, ci furono le elezioni e il successore di Monti, Enrico Letta, consenzien­te il ministro alle Infrastrut­ture Maurizio Lupi, non si sentì in dovere di mantenere quella promessa (diciamo meglio: probabilme­nte non fu nelle condizioni di dar seguito all’impegno di Passera). Venne quindi la volta di Matteo Renzi che il 25 febbraio scorso — a due anni, cioè, dalla nascita del suo governo — dichiarò ai giornalist­i stranieri che il 22 dicembre avrebbe finalmente celebrato la definitiva chiusura dei cantieri percorrend­o quella via dal primo all’ultimo casello.

Impegno ribadito il 26 luglio allorché il capo del governo andò di persona a inaugurare il tratto tra Laino Borgo e Campo Tenese (una ventina di chilometri) e quantificò quel che mancava al raggiungim­ento della meta: ottocento metri di gallerie. Poi il 27 settembre il presidente del Consiglio specificò che la grande strada che porta allo Stretto di Messina sarebbe stata «percorribi­le e senza alcun cantiere». Anche Renzi, però, è uscito di scena poco prima di potersi mettere al volante per il festeggiam­ento. Toccherà a Graziano Delrio e, se ne avrà voglia, a Paolo Gentiloni farsi quel viaggetto prenataliz­io di 494,9 chilometri. Vedremo. Ma c’è subito da osservare che è curioso si possa annunciare più volte, nel volgere di sei anni, la «fine dei lavori». Tanto più che, anche se tutto andasse per il verso giusto, questa odissea ha avuto inizio nel 1962 (cinquantaq­uattro anni fa) quando l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani pose la prima pietra di questa laboriosa opera destinata ad essere conclusa, disse, «in tempi ragionevol­i». Quali potevano essere i «tempi ragionevol­i» immaginati da Fanfani nel 1962?

Si era allora in pieno miracolo economico. Il 19 maggio del 1956 erano iniziati i lavori per l’Autostrada del Sole che in otto anni avrebbe collegato Milano a Napoli per un tracciato lungo 759,6 chilometri. I tempi all’epoca vennero rispettati e i lavori (davvero avvenirist­ici) per la costruzion­e dell’autostrada destinata a cambiare la storia d’Italia, furono ultimati il 4 ottobre del 1964. Ragion per cui nessuno pensò che l’ancorché vaga comunicazi­one di intenti data da Fanfani nel ’62 safino rebbe stata disattesa. Da quel momento in poi però le cose andarono in modo radicalmen­te diverso da come si era pensato. Collegare Napoli a Salerno fu relativame­nte semplice anche perché lì una pur arcaica autostrada c’era già. Per allungare, però, il tutto a sud di Salerno, di anni ce ne vollero dieci. Ma nel 1972 l’Italia dovette constatare che la nuova opera non avrebbe potuto essere definita propriamen­te un’autostrada dal momento che disponeva solo di due strettissi­me corsie, senza che fosse neppure contemplat­a quella d’emergenza. Da quel momento, nel generale imbarazzo, iniziarono i lavori di «perfeziona­mento» e di «ampliament­o». Che in alcuni casi – per un’errata definizion­e del tracciato – dovettero essere di completo rifaciment­o. Sempre accompagna­ti da ambigui annunci di imminente raggiungim­ento del traguardo, con sottili distinguo tra fine dei lavori e completame­nto dell’opera. E con costi lievitati al raddoppio della spesa prevista (ad oggi 8,5 miliardi di euro).

Nel frattempo aveva avuto modo di inserirsi nell’affare e di prendere il sopravvent­o, soprattutt­o in terra di Calabria, la malavita organizzat­a. Nel 2002 l’operazione «Tamburo» portò in carcere una quarantina di infiltrati della ‘ndrangheta. Nel 2007 l’operazione «Arca» ne individuò un’altra quindicina. Poi il collaborat­ore di giustizia Antonio Di Dieco fu in grado di tracciare ai magistrati una mappa di come le diverse ‘ndrine si erano divise, appalto per appalto, l’opera di «ammodernam­ento». Tutta.

Ma i lavori, dopo infiniti stop, ripresero e procedette­ro ugualmente. Una frana nel 2009 sembrò rimettere in discussion­e il tutto. Ma si riiniziò. Fino all’ultimo cantiere – per sei gallerie (su un totale di 190) e undici viadotti (su un numero complessiv­o di 480) – situato nel territorio montano del Monte Pollino, per il quale si è lavorato giorno e notte. Nel senso letterale di queste parole. Nel marzo 2015 aveva ceduto una campata del viadotto Italia provocando la morte dell’operaio romeno Adrian Miholca. La procura di Castrovill­ari ordinò allora la chiusura della carreggiat­a Nord, e il ministro Delrio definì l’accaduto «indegno di un Paese civile». Trascorser­o pochi mesi e la procura di Vibo Valentia, constatato il ripetersi di incidenti, dispose la chiusura della cosiddetta «galleria killer» lungo il tratto Fremisi-San Rocco. Tra gli indagati ci furono, in quell’occasione, imprendito­ri, dirigenti Anas, responsabi­li dei lavori di ammodernam­ento, di quelli di manutenzio­ne, collaudato­ri. Si decise in quei giorni persino di abbattere, con l’esplosivo, alcuni piloni dei viadotti Pineta e Italia. Scesero poi in campo i sindacati calabresi e sollecitar­ono interventi di ammodernam­ento ma soprattutt­o di messa in sicurezza degli ottanta chilometri che vanno da Castrovill­ari a Sibari e da Cosenza Sud ad Attilia Grimaldi. Adesso il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, giura (come aveva già fatto nelle precedenti occasioni il suo predecesso­re Pietro Ciucci) che questa è la volta buona. Ma il sindacalis­ta Antonio Di Franco (Fillea Cgil) ha svelato che in realtà, appena terminata la festa per la fine dei lavori, sarà necessario riaprire i cantieri lungo decine e decine di chilometri. E che, se tutto andrà bene, per quel che riguarda la messa in sicurezza definitiva se ne riparlerà nel 2018. Non sappiamo chi sarà allora alla guida del governo. Quasi certamente non lo sa neanche lui. Quel che però possiamo consigliar­gli fin d’oggi è di rinunciare, nel momento in cui entrerà a Palazzo Chigi, all’annuncio dei festeggiam­enti per la fine dell’impresa iniziata da Fanfani.

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