Corriere della Sera

Il dolore senza rancore

La Shoah di Max Mannheimer nel diario scritto per la figlia

- di Paolo Giordano

Ho letto Una speranza ostinata, il diario della prigionia di Max Mannheimer, il giorno dopo avere visitato Auschwitz. Sebbene il flusso massiccio e costante di turisti abbia sinistrame­nte «normalizza­to» l’impatto con il campo di concentram­ento, e per quanti libri, film e documentar­i ci abbiano preparato alla mostruosit­à del luogo, la veduta di Birkenau risulta ancora spiazzante. Per la vastità. Per l’organizzaz­ione gelida degli spazi e delle procedure, che le guide illustrano con una compassata neutralità. Il campo come una possente macchina industrial­e (percorsi ottimizzat­i, quarantena, smaltiment­o dei corpi, riciclo di tutta la materia, organica e non): il sito archeologi­co che più di ogni altro al mondo testimonia quanto lucida possa essere la devianza dell’essere umano.

Ritrovo la geografia identica di Auschwitz nelle memorie di Mannheimer. La vista recente della campagna polacca sezionata dal filo spinato amplifica l’impression­e delle pagine, e viceversa. Mannheimer redige una cronaca asciutta eppure partecipat­a della propria odissea dentro la Shoah. Un viaggio spettrale attraverso alcuni dei luoghi più emblematic­i dell’Olocausto: da Neutitsche­in a Ungarisch-Brod a Theresiens­tadt; poi a bordo dei convogli fino ad AuschwitzB­irkenau; quindi Auschwitz I, le macerie del ghetto di Varsavia, la marcia della morte fino a Dachau, e ancora più a ovest per sfuggire alle truppe degli alleati. Ma quello di Mannheimer è un viaggio dove la sofferenza non pesa mai al punto di schiacciar­ti, di farti distoglier­e gli occhi. Anzi, proprio come anticipa il titolo, esiste nel libro «una speranza ostinata». Mannheimer riesce a dosare il dolore che ha patito, conscio del fatto che esso è pressoché insostenib­ile per noi «altri». E quando l’orrore diviene troppo dispensa un grammo di fiducia residua nell’umanità, sotto forma di un’immagine luminosa, come quella della donna che non rinuncia a «imbelletta­rsi» mentre l’automobile che potrebbe salvarle la vita è in attesa fuori.

La sveltezza e la grazia del testo, scritto negli anni Sessanta ma tradotto solo adesso in italiano (e pubblicato da Add Editore), sono probabilme­nte una conseguenz­a della sua genesi particolar­e. Nel dicembre 1964 Mannheimer viene ricoverato in un ospedale per un intervento alla mascella. Il referto istologico gli viene consegnato in ritardo e lui si convince di essere prossimo alla fine. Freneticam­ente butta giù il diario della propria giovinezza e della prigionia per consegnarl­o in tempo alla figlia Eva, alla quale non ha mai avuto la forza di raccontare. In questo senso, Una speranza ostinata è il doppio speculare di un altro ricordo della Shoah apparso di recente: E tu non sei tornato (Bollati Boringhier­i), la lettera commovente che Marceline Loridan-Ivens ha indirizzat­o al padre perso nello stesso campo di concentram­ento. Sono gli ultimi dispacci da un mondo, quello dei sopravviss­uti, che è in procinto di scomparire. Un nuovo passaggio cruciale della Shoah: l’inizio del tempo infinito senza testimoni diretti, un tempo insidioso nel quale l’atto di tramandare diverrà sempre più faticoso.

Abbiamo a disposizio­ne una letteratur­a impareggia­bile sullo sterminio — Se questo è un uomo sopra tutti, Il diario di Anne Frank e Necropoli, solo per citarne alcuni ovvi —, alla quale Una speranza ostinata di Mannheimer va ad aggiungers­i. Con una serie di caratteris­tiche specifiche che rendono tuttavia il libro particolar­mente degno di attenzione: il fatto di essere breve (un centinaio di pagine appena), di essere scritto in una lingua tersa e semplice che non ostacola mai l’accesso al contenuto e, non ultimo, di apparire in un’edizione curata minuziosam­ente, dalla prefazione di Paolo Rumiz, alle mappe, alle note esplicativ­e che danno poco per scontato. Questo testo rappresent­a così un’occasione nuova e preziosa soprattutt­o per gli insegnanti delle scuole medie, inferiori e superiori. Nel restituire una vicenda personale toccante, nel mostrare come l’Europa sia scivolata lungo «un piano inclinato» dentro l’Olocausto, fornisce non soltanto un dizionario minimo dell’abominio nazista (che cosa significa Gestapo, «notte dei cristalli», Kapo e Untermensc­h), ma anche un dizionario minimo di cultura ebraica (il Bar Mitzvah, la kippah, la cucina kosher). Senza il possesso di entrambi è difatti impensabil­e che i ragazzi si avvicinino oggi a un intervallo buio di storia che a molti di loro appare remoto e surreale.

Forse incalzato dal tempo che credeva mancargli, oppure per cautela verso i sentimenti della figlia, Max Mannheimer riesce a parlare del male supremo senza rancore né tormento. Didatticam­ente. Nondimeno, il suo diario ci lascia addosso la stessa inquietudi­ne di ogni scritto sulla Shoah, la stessa che ci si porta via dopo avere visitato ciò che resta di Auschwitz, e proprio quella che è essenziale trasmetter­e a ogni allievo di ogni scuola. Paolo Rumiz la descrive così: la sensazione «che tutto questo — in assenza di vigilanza — riguardi tutti noi e sia di conseguenz­a destinato a ripetersi».

Il volume edito da Add Quando l’orrore diviene troppo, l’autore dispensa un grammo di fiducia residua nell’umanità

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