Jager d’argento nei 3000 siepi L’America sa ancora correre
Allora si può. Si può nascere non africani e vincere una medaglia nel fondo e mezzofondo dell’atletica leggera, facendosi largo tra i monopolisti etiopi e keniani. A Pechino ci riuscì solo il kiwi Willis nei 1.500 metri (2°), a Londra gli americani Manzano e Rupp in 1.500 e 10 mila metri. A Rio ce l’ha fatta Evan Jager (foto), lo yankee dai lunghi capelli biondi, che ieri nei 3000 siepi si è infilato tra Kipruto e Kemboi in 8’04”28. Medaglia d’argento, Jager è l’idolo (assieme a Galen Rupp, sparring partner di Mo Farah) dello smisurato popolo americano del running: si è fatto le ossa nei mitici cross universitari ed è arrivato alla gloria olimpica. Negli Usa, dove la corsa è religione, si cerca da decenni un successore degli eroi dei 70 e 80, quei Steve Prefontaine, Mary Deker ed Alberto Salazar che nessuno ha mai emulato. Un olimpionico sarebbe un testimonial mostruoso a livello mediatico e commerciale. Non a caso le grandi maratone (Boston, Chicago, New York) mettono in palio premi stellari (senza mai assegnarli) a eventuali vincitori autoctoni e istituzioni para culturali come il Nike Campus di Portland (dove Jager si allena) finanziano i migliori talenti con borse di studio degne di un giocatore di basket. A dispetto delle polemiche su presunte pratiche dopanti (si discute molto di Alberto Salazar, allenatore di Farah e Rupp) il programma di reclutamento funziona. Ieri nella finale delle siepi c’erano tutti e tre gli americani come già era successo nei 10 mila metri e potrebbe succedere nei 1.500. Polemiche sospese ieri per Caster Semenya che si è qualificata negli 800 senza dare troppo nell’occhio. Brava Yusneysi Santiusti, cubana naturalizzata italiana, anche lei promossa.