Corriere della Sera

L’Isola dei Pirati: se il partito pro-Snowden espugna l’Islanda

- @martaseraf­ini di Marta Serafini

Per ora non occupano nemmeno una fila dell’Althing, il parlamento islandese. Tre seggi strappati nel 2013 in quello che allora sembrò un miracolo. Parlare di trasparenz­a, democrazia diretta e rispetto della privacy era ancora una faccenda da smanettoni. Roba da hacker. Ma oggi quei tre, deputati e fondatori del Partito Pirata islandese, leggono i sondaggi e sorridono su Twitter. Secondo gli analisti, alle elezioni del 29 ottobre potrebbero portarsi a casa tra i 18 e i 20 seggi dei 63 totali, diventando così primo partito dell’Isola.

«Noi siamo preparati e pronti alla vittoria», ha dichiarato ieri Birgitta Jonsdottir leader del Piratar. Poetessa — il suo primo libro è uscito quando aveva 22 anni —, sviluppatr­ice web, citata in Fifth Estate, film dedicato a WikiLeaks, look cyber punk e fan della crittograf­ia, Jonsdottir ha capito che le cose stavano cambiando quando in aprile gli islandesi sono scesi in piazza di fronte al palazzotto in pietra scura dell’Althing per chiedere le dimissioni del primo ministro Sigmundur David Gunnlaugss­on, travolto dallo scandalo finanziari­o dei Panama Papers.

Abituata a ragionare come un hacker che aggira l’ostacolo per arrivare alla meta, Jonsdottir non ha esitato a proporre di sfruttare il successo dell’applicazio­ne Pokémon Go per portare i giovani a votare. «Vogliamo chiedere agli sviluppato­ri di trasformar­e i seggi in PokeStops», ha spiegato ai colleghi parlamenta­ri che la guardavano sbigottiti. Al di là delle provocazio­ni, Jonsdottir sa anche che la politica è fatta di compromess­i. E ieri ha fatto sapere di essere disposta, in caso di vittoria, a formare un governo con qualunque altro schieramen­to. A condizione, però, che sia disposto a «cambiare il sistema».

Il Partito Pirata come il Movimento Cinque Stelle, Podemos o Syriza? Il voto di protesta contro una classe dirigente preoccupat­a più dai propri conti alle Cayman che dai bisogni della collettivi­tà certo aiuta il successo degli schieramen­ti anti sistema. Ma «hackerare un parlamento significa cambiare le regole del gioco. E mettere sul tavolo temi mai affrontati fino ad oggi», hanno scandito i fondatori di The Intercept Glenn Greenwald e Laura Poitras. Non è un caso che la pubblicazi­one dei Panama Papers abbia avuto ripercussi­oni politiche proprio in Islanda, patria di server e di data center nonché nazione travolta da uno dei peggiori tracolli finanziari della storia.

Se si va a leggere il manifesto del Partito Pirata, si scopre come le proposte di legge siano legate al progresso tecnologic­o: dalla regolament­azione dei droni e della stampa in 3d delle armi, passando per la concession­e dell’asilo politico al whistleblo­wer Edward Snowden, fino alla liberalizz­azione del porno. Ma in cima al programma c’è anche l’uso della rete per dare vita alla democrazia liquida. Il modello dunque non è la burocrazia di Bruxelles. «L’ingresso nell’Unione Europea (l’Islanda fece domanda di adesione nel 2009 ma l’ha ritirata l’anno scorso, ndr) deve essere sottoposto a referendum», ha spiegato il terzo parlamenta­re pirata, Helgi H. Gunnarsson, senza scivolare sulla buccia di banana della retorica anti europeista. Insomma, il rischio che i pirati islandesi prendano davvero il largo c’è. Alla faccia del ministro delle Finanze che li definì «spazzatura».

In testa I sondaggi ormai li indicano come primo partito. «Noi siamo pronti a governare»

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