UNA REVISIONE DI MENTALITÀ PER LE RELIGIONI MONOTEISTICHE
Senza intaccare le verità di fede bisogna ribadire che sono gli atti individuali e collettivi a qualificare identità, appartenenza, fedeltà a Dio. E non i dati sociologici, culturali, etnici
Le condanne politiche del terrorismo e la solidarietà di istituzioni religiose alle vittime contano. Ma guardare oltre le crisi, non cedere alle paure, diffondere semi di speranza e chiarezza richiede un supplemento d’anima che può venire da Cristianesimo, Ebraismo, Islam. Punto di partenza è la consapevolezza che ci troviamo a vivere una sorta di doppia religione e a dover rispondere a una plurima appartenenza. Come Cristiani, Musulmani, Ebrei viviamo cioè una fede fondata su una religione storica specifica, dotata ciascuna di riferimenti spirituali ed etici che conferiscono identità, dettano comportamenti, creano occasioni d’incontro, da cui possono derivare dialogo e intese, ma pure tensioni, conflitti, guerre. Nel contempo siamo cittadini del mondo, membri di quella sorta di «religione universale», cara agli Illuministi, basata sui diritti individuali. Una visione che pone l’uomo al centro ed esige tolleranza, libertà di pensiero, eguaglianza.
Fatti tragici, insieme a moralità privata e pubblica, vita quotidiana, scelte degli Stati, organismi internazionali, economia sono luoghi di contrasto fra religioni storiche e la serie di diritti che la società secolarizzata ha dilatato nelle aspirazioni dei singoli rispetto alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Onu, 1948).
Un nodo del contrasto sta nella natura dell’esperienza religiosa. In sintesi: le tre grandi religioni monoteistiche rivendicano di stabilire ciò che è vero, da affermare, e quel che invece è falso: da condannare e combattere. E siccome tutt’e tre hanno per capostipite Abramo, ma poi professano tre modalità diverse attraverso cui Dio si è manifestato nella storia, hanno aperti due fronti: uno interno, specifico delle relazioni fra Cristiani, Ebrei, Islam, e l’altro verso chi non crede.
V’è da chiedersi cosa le tre religioni possono fare oggi perché le categorie di «verità» e di «fedeltà» siano vissute nella dimensione di valore ed esperienza spirituale, senza sconfinare nella violenza verbale e fisica all’interno delle singole fedi (anatemi e annientamento dell’altro), nei rapporti con le confessioni che onorano Dio in modo diverso, nei confronti del mondo che non si definisce nemmeno più ateo.
L’esperienza racconta di tentativi preziosi. I Cattolici col Concilio, eredità di aspirazioni, elaborazione di un pensiero, applicazioni successive; i Protestanti con una teologia avanzata e movimento ecumenico; gli Ortodossi con l’affrancamento da una visione o troppo spiritualista o contigua al potere (si pensi al ruolo di quella Chiesa verso il postcomunismo). L’Ebraismo, attraverso la costituzione dello Stato d’Israele, ha fatto un po’ da paradigma della necessità di trovare un equilibrio tra teologia e politica. L’Islam, invece, è rimasto tagliato fuori da tale processo, in quanto religione prevalente in Paesi vittime del colonialismo, depositari di fonti energetiche, con governi chiusi e poco interessati a temi tipo i diritti.
Per andare oltre, le religioni storiche hanno davanti alcune sfide nelle relazioni tra loro e al proprio interno. V’è da cercare ponti, come stanno facendo papa Francesco, il patriarca Kyril di Mosca (che finalmente incontra il Pontefice romano, a Cuba), Bartolomeo I (che va a Lesbo con Francesco), i musulmani di Francia che reagiscono al crimine di Rouen in chiesa coi cattolici, gli Ebrei che testimoniano vicinanza ai cristiani
Esame di coscienza Ai credenti tocca riflettere sulla responsabilità personale e di gruppo
vittime di attentati e chiedono reciprocità quando Israele è attaccato. Ma è al proprio interno che le tre religioni monoteistiche sono chiamate a compiere una profonda revisione di costume, mentalità, religiosità. Senza intaccare le verità di fede, devono ribadire che sono gli atti individuali e collettivi a qualificare identità, appartenenza, fedeltà a Dio, non dati sociologici, culturali, etnici. È sfida difficile, che può suscitare dubbi e impopolarità, com’è accaduto quando Francesco, davanti all’uccisione del sacerdote di Rouen, ha condannato l’atto umano delittuoso, non l’essere musulmano dell’assassino. Sino a notare che anche cristiani «battezzati» compiono femminicidi.
Ai credenti tocca di riflettere sulla responsabilità individuale e di gruppo, oltreché al tasso di ortodossia delle pratiche di fede. Senza derive relativiste, occorre contemperare modi che appartengono alla storia, contenuti essenziali, «segni dei tempi». Questi, per chi si dice discendente da Abramo, vengono da Dio e vanno capiti. Altrimenti prevalgono affermazioni di sé, potere e, purtroppo, violenza, che poi tutti condannano.