«Sono timido, volevo fare l’astronauta Il successo? Ora posso proporre di tutto»
on frequenta, non coltiva, non compare. I salotti si diverte ad allestirli sui set dei suoi film, gli scatti dei fotografi che predilige sono quelli di scena. I giornali li legge in cerca di spunti ma non muore dalla voglia di essere lui l’argomento principale. Insomma, un aspirante perfetto sconosciuto, Paolo Genovese, il regista e cosceneggiatore della fortunata commedia che lo ha messo sotto i riflettori. Perfetti sconosciuti, appunto, un successo oltre da 17 milioni di euro di incasso, venduto in tutto il mondo, remake in programma in 30 Paesi, premiato al Tribeca di De Niro, miglior film ai David di Donatello, in lizza nella cinquina commedia dei Nastri d’argento in programma domani a Taormina dove sarà premiato il suo cast (Giuseppe Battiston, Anna Foglietta, Marco Giallini, Edoardo Leo, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher e Kasia Smutniak). «È vero sì, apparire non mi piace. Sono un timido, non mi sento a mio agio sotto i riflettori. Preferisco parlare attraverso i miei film. Non sono un tipo glamour, sono legato alla stessa donna da vent’anni, non faccio vita mondana. Per un attore è diverso, la popolarità in quel caso fa parte della misura del successo. Mi piace l’identificazione, che il pubblico venga a vedere una tua cosa e ci si riconosca, che venga apprezzato il lavoro che fai. È già abbastanza da narcisi questo, non mi serve altro». Romano, classe 1966, segno zodiacale Leone, maturità classica al Giulio Cesare (il liceo di corso Trieste «dove Nietzsche e Marx si davano la mano», celebrato da Antonello Venditti e frequentato, negli anni, da Marco Pannella, Maurizio Costanzo, Serena Dandini), una laurea in economia e commercio, tre figli. A fare il regista da bambino non ci pensava proprio. «Puntavo a cose tipo il calciatore o l’astronauta. Ma raccontare storie è la cosa che mi è sempre piaciuta di più». adolescente. La confidenza sottintesa nel racconto della sua prima volta. «Ho una figlia di dodici anni. Ecco, quella è la telefonata che mi piacerebbe vivere, racconta di una fiducia tra padre e figlia che ti devi essere conquistato e che viene ripagata. Ma non sarò così bravo probabilmente. Però mi piace immaginare che potrei esserlo». di sì. Ma il prossimo film preferisco sbagliarlo piuttosto che fare qualcosa banale». Ansia da prestazione? «Certo. Ma è giusto, il successo ti dà opportunità ma anche responsabilità. La commedia è un genere meraviglioso, ha raccontato in maniera incredibile questo paese: Scola, Monicelli, Salvatores, Benigni. È importante ogni tanto ricordarlo, soprattutto in un anno ricco come questo: La pazza gioia, Lo chiamavano Jeeg Robot, Quo vado? Tutti diversi, in comune c’è l’originalità, il carattere, non la declinazione di qualcosa già visto o già fatto. Se segui sempre il solco fai fotocopie e pian piano sono sempre più sbiadite».