«Credito? Vi serve un piano Paese»
OBSTFELD IL CAPOECONOMISTA DEL FMI
Obstfeld del Fondo monetario internazionale: «Non solo credito, all’Italia serve un piano Paese».
Maurice Moses Obstfeld, a 64 anni, ha una timidezza che inganna. Dietro l’aria da accademico, gli abiti fuori da qualunque moda degli ultimi vent’anni, non c’è un uomo che si astrae. Docente di economia all’università di California a Berkeley, capo economista del Fondo monetario internazionale da dieci mesi, Obstfeld ha una profonda esperienza politica: è arrivato al Fmi dalla Casa Bianca, dov’è stato fra i consiglieri economici più influenti di Barack Obama. La sua apparente timidezza è la cautela di un uomo che sa quanto pesino le proprie parole, specie se riguardano un Paese con i problemi dell’Italia dopo il sisma innescato dalla rottura britannica con l’Unione Europea.
A causa della Brexit, il Fmi rivedrà le sue previsioni per i Paesi europei e l’economia internazionale?
«Le stiamo rivedendo e pubblicheremo il nostro solito aggiornamento trimestrale. Il risultato probabilmente non sarà positivo, non per il Regno Unito e l’area euro. Ma è difficile capirne le dimensioni, c’è molta incertezza».
Gli investitori potrebbero chiedersi se qualche altro Paese non vorrà uscire dalla Ue o dall’euro. Non trova?
«Certamente la Brexit è stata accolta con favore da certe forze politiche in Europa, ma in gran parte dei Paesi non credo che ci sia grande appoggio. La Gran Bretagna aveva da tempo un fortissimo movimento euroscettico, lì è una questione antica. In altri Paesi, in particolare nell’area euro, gli euroscettici dovrebbero vedersela non solo con l’uscita dall’Unione ma con la rinuncia alla moneta unica e ciò la renderebbe un’idea molto più costosa».
L’Unione bancaria resta un’incompiuta. Nell’area euro si è messa in comune la vigilanza, ma non si condividono i rischi e l’assicurazione contro di essi.
«Ciò che è stato fatto è un notevole passo avanti rispetto a prima, quando la sovranità nazionale sulle questioni di
stabilità finanziaria era totale. Naturalmente va fatto di più. L’Unione bancaria era nata per recidere il legame fra gli Stati e le banche, ma non è ancora successo».
Parla dell’idea che le banche riducano l’esposizione al debito pubblico del loro Paese?
«Sì ma la questione va oltre, le banche hanno davvero una natura nazionale. Le più grandi operano in tutt’Europa e nel mondo, ma restano legate allo stato di salute della loro economia nazionale. E sono chiaramente italiane, o francesi, o tedesche. Non siamo arrivati a banche europee coperte da una garanzia universale sui depositi sostenuta congiuntamente da risorse di bilancio comuni. Quello sarebbe l’ideale. Alcune delle risorse pubbliche sarebbero chiamate a contribuire ogni volta, ma in particolare l’assicurazione sui depositi resta molto controversa. Uno può capire le preoccupazioni (nei Paesi del Nord Europa, ndr) per i problemi preesistenti in certe banche di altri Paesi. Ma se c’è volontà di andare avanti, si troverà il modo».
Già, ma come?
«C’è un lavoro da completare sui crediti in default per esempio in Italia, o in Portogallo. Finché non si fa pulizia di quei crediti, è difficile andare avanti. È nell’interesse dell’Italia e del Portogallo gestire questa questione. Le banche non stanno prestando, i loro bilanci sono appesantiti. Una volta che quegli istituti saranno più solidi, diventa molto più facile fare un’assicurazione europea dei depositi. Non ci si può aspettare che altri Paesi che non hanno questi problemi siano felici di partecipare a una garanzia comune sui depositi fino a quando i bilanci bancari altrove restano deboli».
Ma è dura sistemare le banche, se in base alle norme Ue si rischia di doverne colpire i risparmiatori e così innescare il panico. Le regole solo tali da rendere la soluzione dei problemi molto difficile.
Stiamo rivedendo il nostro solito aggiornamento trimestrale, non sarà positivo per Londra e la Ue
«Assolutamente. Ma anche se le regole non ci fossero, per l’Italia aumentare il suo rapporto debito-Pil sarebbe comunque potenzialmente problematico. Questo ci dice che avete bisogno di un approccio molto, molto coerente, che non si concentra solo sulle banche. Avete bisogno di maggiore crescita, e perciò avete bisogno di riforme strutturali. Vi serve un percorso a tappe con tempi precisi per le banche, anche graduale, per ridurre i crediti cattivi e aumentare il capitale. Niente di tutto ciò è facile, ma indica che avete davvero bisogno di un insieme di misure che si tengono e ciò può produrre vari effetti: avviare la crescita e migliorare le finanze pubbliche, per esempio, allargando la base fiscale. Ciò si scontra con le realtà politiche, ovvio. Ma non è impossibile riuscirci. Potrebbe essere politicamente infattibile, o difficile».
Con un pacchetto ampio di misure, fra cui quelle per le banche, si potrebbero sospendere le norme che colpiscono i risparmiatori?
«È la Commissione Ue che deve decidere, al fondo è una questione molto politica. Ma credo che senza un pacchetto ampio sarà difficile affrontare quelle questioni (bancarie, ndr) isolatamente».
Insomma lei dice che serve un programma?
«Sì. Un programma delle autorità italiane».
L’Unione bancaria era nata per recidere il legame fra gli Stati e le loro banche, ma non è ancora successo
Dunque non un programma leggero dell’Esm, il fondo salvataggi europeo, come ha fatto la Spagna sulle banche?
«L’Esm sarebbe un modo di mettere in azione risorse europee per quello che è, al fondo, un problema europeo. Di nuovo: l’aspetto politico è complicato, ma in linea di principio il meccanismo c’è».
La politica non è il suo lavoro, ma in termini puramente economici e razionali suggerirebbe l’ingresso dell’Esm?
«Be’, mi affiderei ai processi politici interni per cercare di fare queste cose, perché un’adesione nel Paese è decisiva per il successo di un pacchetto complessivo. Se sia fattibile politicamente non lo so, ma per riportare e aumentare la crescita e mettere il rapporto debito-Pil fermamente su un sentiero calante dev’esserci per forza un approccio complessivo».
Il governo punta su misure fiscali e bonus per sostenere la domanda.
«L’Italia ha già una politica di bilancio un po’ espansiva. È difficile. Considerando il livello del debito, se non si allarga la base fiscale, non c’è spazio di bilancio per farlo».