Corriere della Sera

Da oggi col Corriere i romanzi e i saggi di Leonardo Sciascia

«Anti-Gadda» e «politico», Sciascia racconta tutto nel segno dell’impegno e della contempora­neità

- Di Stefano e Collura

La collana Da oggi in edicola con il quotidiano i libri dell’autore di Racalmuto L’occasione per scoprire uno scrittore visionario e, per questo motivo, straordina­riamente attuale. Come capì il «collega» (e amico) Italo Calvino

Leonardo Sciascia è stato, per la letteratur­a italiana, un pioniere. Ha scritto poliziesch­i quando la detective story suscitava ingenuamen­te il sospetto di essere un genere «basso» a prescinder­e, popolare, indegno della grande letteratur­a. Ha scritto romanziinc­hiesta quando il raccontove­rità emanava odore di giornalism­o. Ha scritto pamphlet spesso «eretici» che scatenavan­o dibattiti e polemiche. Sciascia era difficilme­nte classifica­bile, tra narrazione pura, reportage, racconto storico, apologo, saggismo.

Nel 1954 Italo Calvino, uno scrittore anni-luce lontano da Sciascia, consiglia ad Alberto Carocci di pubblicare per «Nuovi Argomenti» le Cronache scolastich­e di quell’ignoto maestro elementare di Racalmuto, presentand­olo come un «giovane letterato molto intelligen­te»: le Cronache sarebbero uscite l’anno dopo sulla rivista per confluire, nel 1956, nel volume di Laterza intitolato Le parrocchie di Regalpetra. Nello stesso anno, quando Sciascia propone a Calvino un altro racconto, Stalin, l’editor dell’Einaudi si dice poco convinto: «Potevi giocare di più». E aggiunge: «In qualche parte c’è troppo la cronaca degli avveniment­i storici, il resoconto di quel che pubblicano i giornali, senza abbastanza contropart­e di narrazione. E forse (ma lì ognuno ha il suo modo) un po’ più di partecipaz­ione pietosa per il personaggi­o (vedi Cassola) per salvarlo dalla macchietta. Insomma, è un libro a cui se tu ti sentissi di lavorarci ancora, potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superficia­le, con un sospetto di facilità».

Quella mescolanza di materiali e forse di intenzioni non piaceva a un lettore intelligen­tissimo come Calvino. Non gli sarebbe piaciuto, nel 1957, neanche il nuovo racconto, Il quarantott­o, giudicato poco coraggioso, sociologic­o, deludente, facile: «Chi se ne frega del costume? (…) Oggi la letteratur­a dev’essere terribile ». Benché lo trovi scolastico e troppo vicino al modello brancatian­o, Calvino preferisce nettamente il terzo racconto, Gli zii di Sicilia, che di lì a poco darà il titolo al primo libro einaudiano di Sciascia, un trittico di racconti che Vittorini ospiterà nella collana dei «Gettoni».

«Si capisce — disse Sciascia — che mi considero uno scrittore politico. In effetti, non c’è scrittore che non lo sia. Ma lo si è in due modi: o si offre la propria “irresponsa­bilità” al potere o la propria “responsabi­lità” a tutti. Io ho preferito questo secondo modo». Sciascia è posseduto dal demone del presente, e per questo viene percepito come uno scrittore forse troppo engagé (e forse con un eccessivo retaggio neorealist­ico) per essere un vero scrittore (il «costume» di cui parlava Calvino…). Eresia secentesca, declino della nobiltà settecente­sca, Risorgimen­to e spedizione garibaldin­a, guerra di Spagna, Seconda guerra mondiale, arretratez­za siciliana, emigrazion­e, mafia: tutto ciò che Sciascia racconta è nel segno dell’impegno e in chiave di contempora­neità.

La sua prosa (in cui lo stesso Calvino avverte subito «una gran limpidezza di segno») non esaltava, in genere, i critici-critici. Mancava di letterarie­tà, andava troppo al sodo, senza eccessive ricercatez­ze stilistich­e. Sciascia era l’antiGadda, si interessav­a troppo al mondo, alla società, alla politica per essere interessat­o anche alla letteratur­a, il mondo o la mente umana gli si potevano anche presentare indecifrab­ili e barocchi com’erano agli occhi di Gadda, ma a differenza del Gran Lombardo, il siciliano Sciascia è rimasto fedele a quell’andamento paratattic­o di cui parlò, molto precocemen­te, l’amico Pasolini. Mentre per Gadda la scrittura doveva rappresent­are e mimare la complessit­à inestricab­ile del mondo, per Sciascia doveva non semplifica­rla, ma ridurla all’essenziale: la sua scrittura finiva per sfidare pericolosa­mente il grottesco che era nelle cose. Nella famosa intervista con Marcelle Padovani, intitolata La Sicilia come metafora (1979), Sciascia parlò di una «ragione che cammina sull’orlo della non ragione». L’opera di Sciascia si sviluppa in questa tensione tra ragione (illuminist­ica) e oscurità della non ragione, declinata come irrazional­ità del Male o enigma cupo del Potere.

È dopo aver letto Il giorno della civetta che Calvino coglie al meglio la maniera di Sciascia e così gli scrive il 23 settembre 1960: «Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentar­io, su di un problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliat­issima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadrame­nto storico nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalis­mo, e un polso morale che non viene mai meno». Soffermand­osi sull’illuminism­o, che nell’opinione comune della critica accomuna Sciascia e Calvino, quest’ultimo fa però dei distinguo, avvertendo in sé una tendenza al «fantastico-romantico, nonsense» e in Sciascia un più radicale «carattere di battaglia civile». E però precisa: «Ma tu hai, subito dietro di te, il relativism­o di Pirandello, e il Gogol via Brancati, e continuame­nte tenuta presente la continuità Spagna-Sicilia: una serie di cariche esplosive sotto i pilastri del povero illuminism­o (…)».

L’osservazio­ne di Calvino andava acutamente a toccare lo stile proponendo all’amico una chiave evolutiva per le prove a venire: «Io mi aspetto sempre che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che hai accumulato. E questo potrà difficilme­nte a v ve n i re senza un’esplosione formale, della tua levigatezz­a compositiv­a».

La previsione-suggerimen­to di Calvino si sarebbe avverata non tanto sul piano auspicato, quello formale (in cui Sciascia rimane fedele a se stesso), ma sul piano della visione, con l’approdo alle allucinazi­oni del Contesto e di Todo modo. La vera esplosione del non-fiction novel, tra testimonia­nza cronachist­ica e ricostruzi­one storica, si verifica nell’innescare in esso la miccia mostruosa delle congetture: quelle congetture visionarie su innocenza e colpevolez­za, su verità e menzogna necessarie a raggiunger­e nel profondo una possibile verità o almeno a far emergere, dietro le presunte certezze e gli stereotipi, i fantasmi dei fatti in fuga, «in una conseguenz­ialità immaginati­va o fantastica indefettib­ile» (sono parole sue). La perfezione di questa verità sfuggente, ambigua e ipotetica, sostiene Sciascia, «può essere dell’immaginazi­one, della fantasia; non della realtà». Strano caso di scrittore illuminist­a, Sciascia, che dietro la «levigatezz­a compositiv­a» nasconde ombre spesso davvero, come voleva Calvino, terribili.

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La copertina del primo volume delle opere di Leonardo Sciascia, con una fotografia di Ferdinando Scianna. Il romanzo Il giorno della civetta è in edicola da oggi a 6,90 più il costo del quotidiano

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