Corriere della Sera

LA CAPACITÀ DI PROGETTARE IL FUTURO

- Di Vittorio Gregotti

Sono nato quarantaci­nque anni prima di Michela Murgia e quindi ho un’esperienza che risale all’origine di ciò che lei racconta nel suo bel libro Futuro interiore (Einaudi), ed ho quindi almeno il piccolo vantaggio (anche se certo meno ben raccontato) di avere esperienza diretta dell’invecchiam­ento europeo ed un ulteriore pessimismo che lo stato del mio mestiere (o pratica artistica) alimenta. Due altri elementi hanno inoltre cambiato il mio «patriottis­mo italico» assai presto. Il primo l’aver vissuto come studente nel 1947 alcuni mesi a Parigi, allora capitale della cultura europea, il secondo è la mia adesione al Movimento Moderno in architettu­ra con il suo internazio­nalismo critico, completata nel 1951 al Ciam di Hoddesdon dal tema della storia dei contesti, che ha favorito le mie visite europee, americane e asiatiche, prima della loro teletrasmi­ssione, e quindi di essere riuscito a considerar­e la differenza tra culture un prezioso materiale anche per il mio lavoro. Forse a tutto questo ha anche collaborat­o l’origine lituana della mia famiglia arrivata in Italia all’inizio del XIX secolo.

Nell’insieme il problema delle identità etnica, linguistic­a, nazionalis­ta o religiosa, è oggi certamente in condizioni di crisi: crisi di difese obiettivam­ente sempre più indebolite nel loro senso assoluto, o di operazioni come quelle del globalismo finanziari­o i cui obbiettivi mercantili muovono verso un neocolonia­lismo contro ogni preziosa differenza culturale.

Diverso è il caso del secondo capitolo del libro di Michela Murgia. Voglio subito mettere da parte il tema del quartiere Zen, di cui il nostro studio ha la responsabi­lità progettual­e, mai completato, specie nei numerosi servizi pubblici mai realizzati, nato per far fronte all’immigrazio­ne dai villaggi agricoli in abbandono e ostacolato dalla mafia (di cui faceva parte, come è noto, anche il sindaco di Palermo) e poi, in una parte rilevante del realizzato, occupato da abusivi. Un quartiere che comunque rifarei anche oggi come era progettato. Ma il problema centrale resta per l’autrice, in questo capitolo, la capacità di chi progetta la città, o una sua parte, la relazione con un ordine proposto dalla politica, nelle sue diverse forme storiche e, soprattutt­o, un ordine che si propone anche oggi di dare lustro ai poteri piuttosto che essere disponibil­e al bene della popolazion­e che le deve poter liberament­e utilizzare, un ordine di cui la cultura architetto­nica è, sempre criticamen­te, responsabi­le con le proprie forme di rappresent­azione che, nei casi migliori, propongono verità e intenziona­lità di un presente altro, dialettico rispetto ad un contesto specifico e capace di prolungare nella storia la sua testimonia­nza, anche se il suo significat­o ed uso mutano nel tempo ed offrono diverse interpreta­zioni della nostra storia.

La vivacità di una società (che dovrebbe nascere da una forma di giustizia economica collettiva come condizione di libertà) può interpreta­re l’uso ed il significat­o di ogni architettu­ra a partire dal proprio livello di civiltà e di rispetto per la propria storia e per la qualità (preferisco questa definizion­e a quella di bellezza) delle architettu­re prodotte e capaci di rimanere punti di riferiment­o per intere parti di disegno urbano (magari anche un po’ meglio dell’ Institut du monde Arabe di Parigi), una qualità che però certo non risolve la questione delle periferie, le quali dovrebbero essere tanto articolate funzionalm­ente e socialment­e mescolate, tanto dotate di grandi ed importanti servizi collettivi da poter essere definite «parti di città», e non più periferie.

Queste osservazio­ni non eliminano le riflession­i che formano la sostanza del terzo capitolo di questo interessan­te scritto di Michela Murgia, riflession­i che vogliono rispondere all’interrogat­ivo di come la «funzione sociale», cioè i mezzi tecnologic­i dei nostri anni divenuti sovente i soli contenuti del nostro futuro, «possa tornare ad essere espression­e dei fondamenti della propria relazione sociale».

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