LA CAPACITÀ DI PROGETTARE IL FUTURO
Sono nato quarantacinque anni prima di Michela Murgia e quindi ho un’esperienza che risale all’origine di ciò che lei racconta nel suo bel libro Futuro interiore (Einaudi), ed ho quindi almeno il piccolo vantaggio (anche se certo meno ben raccontato) di avere esperienza diretta dell’invecchiamento europeo ed un ulteriore pessimismo che lo stato del mio mestiere (o pratica artistica) alimenta. Due altri elementi hanno inoltre cambiato il mio «patriottismo italico» assai presto. Il primo l’aver vissuto come studente nel 1947 alcuni mesi a Parigi, allora capitale della cultura europea, il secondo è la mia adesione al Movimento Moderno in architettura con il suo internazionalismo critico, completata nel 1951 al Ciam di Hoddesdon dal tema della storia dei contesti, che ha favorito le mie visite europee, americane e asiatiche, prima della loro teletrasmissione, e quindi di essere riuscito a considerare la differenza tra culture un prezioso materiale anche per il mio lavoro. Forse a tutto questo ha anche collaborato l’origine lituana della mia famiglia arrivata in Italia all’inizio del XIX secolo.
Nell’insieme il problema delle identità etnica, linguistica, nazionalista o religiosa, è oggi certamente in condizioni di crisi: crisi di difese obiettivamente sempre più indebolite nel loro senso assoluto, o di operazioni come quelle del globalismo finanziario i cui obbiettivi mercantili muovono verso un neocolonialismo contro ogni preziosa differenza culturale.
Diverso è il caso del secondo capitolo del libro di Michela Murgia. Voglio subito mettere da parte il tema del quartiere Zen, di cui il nostro studio ha la responsabilità progettuale, mai completato, specie nei numerosi servizi pubblici mai realizzati, nato per far fronte all’immigrazione dai villaggi agricoli in abbandono e ostacolato dalla mafia (di cui faceva parte, come è noto, anche il sindaco di Palermo) e poi, in una parte rilevante del realizzato, occupato da abusivi. Un quartiere che comunque rifarei anche oggi come era progettato. Ma il problema centrale resta per l’autrice, in questo capitolo, la capacità di chi progetta la città, o una sua parte, la relazione con un ordine proposto dalla politica, nelle sue diverse forme storiche e, soprattutto, un ordine che si propone anche oggi di dare lustro ai poteri piuttosto che essere disponibile al bene della popolazione che le deve poter liberamente utilizzare, un ordine di cui la cultura architettonica è, sempre criticamente, responsabile con le proprie forme di rappresentazione che, nei casi migliori, propongono verità e intenzionalità di un presente altro, dialettico rispetto ad un contesto specifico e capace di prolungare nella storia la sua testimonianza, anche se il suo significato ed uso mutano nel tempo ed offrono diverse interpretazioni della nostra storia.
La vivacità di una società (che dovrebbe nascere da una forma di giustizia economica collettiva come condizione di libertà) può interpretare l’uso ed il significato di ogni architettura a partire dal proprio livello di civiltà e di rispetto per la propria storia e per la qualità (preferisco questa definizione a quella di bellezza) delle architetture prodotte e capaci di rimanere punti di riferimento per intere parti di disegno urbano (magari anche un po’ meglio dell’ Institut du monde Arabe di Parigi), una qualità che però certo non risolve la questione delle periferie, le quali dovrebbero essere tanto articolate funzionalmente e socialmente mescolate, tanto dotate di grandi ed importanti servizi collettivi da poter essere definite «parti di città», e non più periferie.
Queste osservazioni non eliminano le riflessioni che formano la sostanza del terzo capitolo di questo interessante scritto di Michela Murgia, riflessioni che vogliono rispondere all’interrogativo di come la «funzione sociale», cioè i mezzi tecnologici dei nostri anni divenuti sovente i soli contenuti del nostro futuro, «possa tornare ad essere espressione dei fondamenti della propria relazione sociale».