Rugby azzurro, la rivoluzione di O’Shea
La missione del nuovo c.t. irlandese: rilanciare l’Italia al Sei Nazioni evitando le recenti figuracce
Conor O’Shea è il primo c.t. irlandese della Nazionale. Con lui arrivano Mike Catt, inglese, cervello dell’Inghilterra campione del mondo nel 2003 e insignito, per quel trionfo, dell’Order of British Empire, per tecnica individuale e calci, Stephen Aboud, capo della direzione tecnica della federazione irlandese che sarà responsabile della formazione «Giocatori di volontà e tecnica sufficiente: costruiremo la più forte Nazionale di sempre» della federazione è una svolta importante, se non un’autentica rivoluzione. O’Shea, che conosce il nostro rugby da 20 anni, quando da estremo dell’Irlanda rimediò un paio di sconfitte dagli azzurri, è allenatore (ha vinto la Premier con gli Harlequins), costruttore (è stato responsabile delle giovanili della federazione inglese) e manager, si occuperà della Nazionale e degli Emergenti Il tecnico russo Viktor Chegin ( foto), ex c.t. della nazionale di marcia, è stato squalificato a vita dall’Agenzia antidoping (Rusada). Da tempo Chegin era sotto indagine anche da parte della Iaaf e della Wada per aver sottoposto molti suoi atleti a programmi che contemplavano l’uso di sostanze proibite. L’emergere della vicenda aveva indotto il presidente della Federatletica a dare le dimissioni, una delle prime avvisaglie della valanga che negli ultimi mesi ha travolto l’intero sistema portando la Iaaf a decretare il bando temporaneo degli atleti russi dalle competizioni.
La promessa
( la Nazionale B), mentre Aboud sarà responsabile di tutto quello che sta sotto la Nazionale. In pratica, la federazione ha deciso di affidare a professionisti dal curriculum inattaccabile, rappresentanti della scuola britannica fondata su organizzazione e programmazione, tutto l’alto livello. O’Shea e Aboud avranno (si spera) carta bianca e potranno provare a fare quello che sarebbe piaciuto a Pierre Berbiezier, il c.t. delle prime due vittorie in un Sei Nazioni. Era il 2007, la federazione rispose no e Berbiezier se ne andò sbattendo la porta.
Da allora molte cose sono cambiate, sono arrivate le franchigie, le due squadre professionistiche che giocano la Celtic con gallesi, irlandesi e scozzesi, ma non è arrivato il salto di qualità del rugby italiano che ha continuato a perdere colpi fino all’ultimo Sei Nazioni, il peggiore di sempre. E la scommessa su O’Shea e Aboud se non è l’ultima chiamata è qualcosa che le somiglia molto.
Quando Brunel diventò c.t., nel 2011, tracciò a parole un percorso che avrebbe dovuto portare l’Italia a essere competitiva contro le altre cinque squadre del torneo entro tre anni. O’Shea, da buon pragmatico, nel suo primo abbozzo di Manifesto, si dice convinto «di poter sviluppare le potenzialità del rugby italiano con la collaborazione di tutte le componenti», afferma «di aver giocato contro una grande Italia negli anni 90 e di essere sicuro di poter lavorare con una federazione e un gruppo di giocatori che hanno volontà e capacità sufficienti per costruire la più forte Italia di sempre». Che probabilmente non sarà abbastanza forte per vincere il Sei Nazioni, ma dovrebbe bastare per evitare figuracce come le ultime rimediate a Dublino e a Cardiff.