Corriere della Sera

«Ero ammalato di lavoro Poi ho cambiato tutto »

Lo stilista di Givenchy racconta la sua personale rivoluzion­e: dalla povertà alla fama, «grazie ad amici con cui non ho paura di essere sincero»

- Paola Pollo

on Riccardo Tisci si finisce spesso a parlare di sua madre Elmerinda, vedova presto, delle sue nove sorelle e di quell’infanzia a Como dove la famiglia si era trasferita da Palagianel­lo, provincia di Taranto, per sopravvive­re. Perché anche se ora ha 41 anni, è a capo di Givenchy, è fra i più quotati stilisti al mondo, guadagna e vive bene fra Parigi e New York, le radici se le porta dentro.

È che in quegli abiti così incredibil­i, in quei messaggi così forti, la sua storia, così lontana sembra una leggenda.

«Quando leggo i messaggi che i giovani mi scrivono su Instagram capisco che le mie foto sono per loro un’opportunit­à di entrare dentro a un sogno e capire che si può. Sono onesto, non ho paura di dire chi sono. A me piace mostrare come è la mia vita, anche senza show. Che sono una persona normale, venuta dal nulla. Che a Natale vado dalle mie nipotine a festeggiar­e. Se avessi avuto Instagram da ragazzino avrei risolto molti problemi. Quando ero povero, e volevo studiare e spaccare il mondo ma non potevo e vivevo In atelier Riccardo Tisci, 41 anni, da 10 alla guida di Givenchy, dove ha imposto la sua idea di moda dark «che finalmente non spaventa più» ( Matthew Kanbergs)

in Italia mi sentivo fuori, fuori dalla società. La famiglia Tisci fu la prima ad arrivare a Como dal Sud. Eravamo senza padre. E tutto era ancora più difficile, anche se non posso lamentarmi per l’amore e il rispetto che ho ricevuto da mia madre e dalle mie sorelle. Ma mi spaventai, molto. Non c’erano i soldi per mangiare e a 9 anni lavoravo con mio zio stuccatore. Per questo mi piace prendere chi vive ai margini e dimostrare che ci

sono tabù che esistono, ma che non va bene».

Sua la prima campagna con un transessua­le, Lea T., nata ragazzo — figlia del calciatore Tonino Cerezo — e diventata donna.

«E se penso che ora, dopo tre anni, anche il Times ha messo un trans in copertina mi vengono i brividi. Ho parlato per primo anche di violenza sulle donne con una lettera che misi sulle sedie a una sfilata. Oggi porto avanti un messaggio d’amore senza parlare di religioni o politica. Sono ambasciato­re Amfar in Brasile».

Donatella Versace dice che lei le ricorda suo fratello Gianni.

«Mi hanno dato del rivoluzion­ario e del punk: ho solo toccato temi che gli altri non avevano il coraggio di affrontare. Donatella vede in me un po’ di Gianni, perché anche lui osava».

Bello questo rapporto. Tra stilisti non accade molto spesso.

«Non mi interessan­o gelosia e invidia. A me piace il rapporto umano. Certo non può essere sempre perfetto. E comunque non mi sono mai posto il problema di cosa facessero le persone

che stimo: Hedi (Slimane ndr) o Karl (Lagerfeld ndr) o Donatella sono amici che mi hanno sempre supportato e che ho supportato».

Tra di voi avete il coraggio di dirvi: «Hedi hai fatto una collezione bruttina...»?

«Ma certo. E ci diamo consigli. La sincerità, detta in modo elegante e delicato, fa piacere a tutti e dà modo di rimediare in tempo. Anche perché chi lavora accanto a te a volte ha un po’ di timore. Io non ho rapporti con molte persone e forse per questo pensano che sia snob. Ma il tempo è poco e il lavoro è tanto. Ho anche progetti nel campo dell’arte e della musica. E non vesto le persone perché le pago, ma perché ho legami veri che coltivo».

Ribelle, punk e snob: ma se le sente cucite addosso queste parole?

«All’inizio mi hanno massacrato tutti. Poi mi sono detto basta. La gente non mi capiva? Pazienza. Capiranno. Ho tenuto i paletti fermi, Givenchy è decollato e ora il dark non fa piu paura. Molti mi chiedono come ho fatto in soli dieci anni. Penso perché in questa griffe puoi trovare qualsiasi cosa: dalla felpa alla giacca couture, da Bambi alla borsa di cocco. C’è una forte identità che voglio rendere ancora più naturale. L’originale è vincente in questo momento di caos. Sono felice quando vedo identità forti come quelle di Armani o Versace o Ralph Lauren o Lagerfeld».

E come la mette con un Simons, che non se l’è però sentita di andare avanti da Dior?

«Io ero un workaholic. Lavoravo tutti i giorni dalle 6.30 a mezzanotte. La morte di Alexander McQueen (suicida nel 2010 ndr) e poi la storia di John Galliano (allontanat­o dalla maison Dior nel 2011 ndr) mi hanno sconvolto. Ho avuto paura, ho ripreso ad occuparmi di me. Il nostro è un lavoro forte: devi creare, dunque lasciare andare la mente, e pensare al business e alle conseguenz­e economiche e sociali se una collezione va male. Ed è come avere una famiglia sulle spalle. E io so bene cosa significa».

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