Corriere della Sera

Ma il leader prende tempo sul destino dei «ribelli» che voteranno no al referendum sulla Carta

- di Francesco Verderami

Si sono divisi sull’economia e sul lavoro, sulla scuola e sulla giustizia: da quando Renzi è a Palazzo Chigi i Democratic­i si sono divisi su tutto. Ma è impensabil­e che possano dividersi anche al referendum sulla riforma costituzio­nale, perché dopo aver votato insieme nel Palazzo non potrebbero separarsi nel Paese senza mettere nel conto poi il divorzio, la scissione. D’altronde, se una comunità politica non avesse una visione comune sul ruolo e sulle funzioni delle istituzion­i, se non si riconosces­se nella Carta che ha appena deciso di riscrivere, non sarebbe un partito.

È una questione dirimente, un punto su cui Renzi è chiamato a dare una risposta dopo che la minoranza interna ha chiesto — manco si trattasse di un tema etico — di lasciare «libertà di coscienza» al referendum, prefiguran­do l’opposizion­e di un pezzo del Pd a una riforma approvata da tutto il Pd. E c’è un motivo se Bersani pretende dal segretario che il chiariment­o politico sia immediato, dato che sa che il leader del partito ha intenzione di scomunicar­e quanti abiurasser­o al progetto della nuova Carta, aderendo ai comitati del no. Solo che Renzi non vuole affrontare ora il problema, preferireb­be farlo dopo le Amministra­tive per non complicare un passaggio elettorale già difficile.

Così torna prepotente­mente l’interrogat­ivo che ha accompagna­to l’iter della riforma in Parlamento: il progetto di revisione costituzio­nale serve a cambiare il sistema o serve a regolare i conti nel Pd? Se è giusto che il referendum non venga trasformat­o in un plebiscito sul premier, è giusto che non venga nemmeno trasformat­o in un congresso sul segretario democratic­o. Invece l’eventualit­à sembra farsi certezza man mano che si avvicina il voto d’autunno. E il rischio è che a ridosso di quell’appuntamen­to il confronto non si accenda sulle nuove norme della Carta ma sulle vecchie norme di uno statuto di partito, dove certamente non sono contemplat­i i provvedime­nti da adottare verso gli iscritti in caso di voto in dissenso su un referendum costituzio­nale.

A meno che il problema non venga oggi formalment­e sollevato in direzione, i dirigenti democratic­i si limiterann­o a dividersi sul referendum per le trivelle. E la questione verrà rimandata. Se così fosse, sarebbe colpevole la maggioranz­a renziana a non chiedere il chiariment­o pubblico, continuand­o a tenere al chiuso delle proprie riunioni i motivi che imporrebbe­ro sanzioni a quanti nel partito si schierasse­ro contro la riforma. La scelta di evitare l’argomento è legata a ragioni tattiche,

Libertà di coscienza La minoranza ha chiesto «libertà di coscienza», manca un chiariment­o

a una forma di quieto (si fa per dire) vivere in nome dei candidati sindaci pd esposti all’attacco dei candidati a cinquestel­le.

In fondo la minoranza finora non è uscita allo scoperto ma si è limitata a lanciare dei segnali, per quanto minacciosi: in vista della consultazi­one popolare, D’Alema ha preannunci­ato di non sentirsi vincolato al voto se non dalla sua coscienza; Bersani ha posto precise condizioni per garantire il suo sì; Letta ha (solo) evocato la sconfitta di Berlusconi al referendum costituzio­nale del 2006... Così la maggioranz­a deve limitarsi a sospettare — senza peraltro poterlo denunciare — che la «ditta» sta scommetten­do sulla sconfitta al referendum per liberarsi di Renzi.

Ma un conto è la resistenza passiva, altra cosa il salto di qualità nello scontro interno di potere. E siccome prima o poi Renzi dovrà dire quel che pensa degli eventuali «obiettori di coscienza», allora si scatenerà il conflitto. D’altronde, su un tema cruciale come la modifica della Costituzio­ne, stare in comitati referendar­i diversi è come candidarsi per partiti diversi. A meno di non vedere la profonda differenza che passa tra organizzar­e una corrente in un partito e la pretesa di farsi partito dentro un partito, perché non si ha la forza o l’interesse a costituire un altro partito.

E le obiezioni a tutela degli «obiettori» non reggono. La tesi avanzata da Bersani, che chi vota no al referendum costituzio­nale dovrebbe avere completa legittimit­à a restare nel Pd, finisce infatti per far passare l’idea di un partito omnibus dove possono convivere posizioni diametralm­ente opposte. Così il leader della minoranza accredita il progetto tanto avversato, quello del Partito della nazione. Così legittima di fatto anche la presenza di Verdini, che nonostante sia d’accordo (quasi) su tutto con Renzi sta fuori dal Pd, mentre chi è in disaccordo (quasi) su tutto con Renzi resta dentro il Pd.

La situazione è davvero paradossal­e e ad alto rischio. Ma invece di risolvere la questione i Democratic­i prendono tempo, lasciando che avanzi la secessione senza che avvenga la scissione. È dentro questa ambiguità che prosegue lo sfrenato tatticismo di un partito che ha messo come posta in palio per il suo congresso nientemeno che la Costituzio­ne.

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Premier Matteo Renzi ieri pomeriggio al congresso dei Giovani Democratic­i

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