Corriere della Sera

La crisi del greggio e quei 260 miliardi persi dagli emiri

- di Federico Fubini

La sera, il Burj Khalifa domina su Dubai con i giochi di luce che si inseguono sulle sue pareti lunghe quasi un chilometro. Ai piedi del grattaciel­o più alto al mondo, niente sembra cambiato da quando il prezzo del petrolio è crollato da 114 dollari al barile a metà del 2014, a sessanta a metà del 2015, fino a meno di trenta oggi. Stessa prosperità, stessa fiducia incrollabi­le nel futuro che spinge i monarchi della regione verso investimen­ti sempre più audaci. Con quasi un milione e mezzo di stranieri da ogni parte del mondo — profession­isti del commercio, della finanza o delle tecnologie — il cuore di Dubai non aveva mai pulsato così in fretta.

Solo dai dettagli affiorano in superficie gli effetti delle forze globali che oggi scuotono il Golfo, e da qui trasmetton­o le loro scosse fino all’Europa attraverso i mercati finanziari. I grandi alberghi di Dubai sono sempre sfarzosi, ma ora riscuotono una tassa di soggiorno. Il «Museo del Futuro» espone le tecnologie più stupefacen­ti dei prossimi anni, ma gli abitanti dell’emirato devono mantenerlo versando una «commission­e per l’innovazion­e». Dubai e Abu Dhabi, come l’Arabia Saudita, l’Oman, il Kuwait, il Bahrein e il Qatar stanno scoprendo qualcosa di nuovo per loro: le tasse. Il regime di Riad, in profondo deficit, ha già cancellato una lunga lista di sussidi alle imprese; e da qualche settimana i petro-Stati del Golfo si sono messi d’accordo per introdurre, nel 2018, un’imposta sul valore aggiunto.

Queste monarchie stanno scoprendo il significat­o della parola scarsità. Le loro risorse non sono più destinate a crescere ogni anno. Al contrario, sono venute meno all’improvviso con il crollo del greggio. Nasser Saidi, ex capoeconom­ista del Dubai Financial Centre, consulente di molti dei governi del Golfo, fa conti spietati: «La perdita di entrate da petrolio per i sei Paesi del Golfo è di circa 260 miliardi di dollari l’anno. È uno tsunami», dice.

Soprattutt­o, non è passeggero. Poco più di un anno fa l’Arabia Saudita stupì il mondo bloccando nell’Opec, il cartello del petrolio, qualunque idea di un taglio della produzione per sostenere i prezzi. Il disegno era chiaro: lasciare che le quotazioni cadessero per mettere fuori dal mercato i produttori ad alto costo: il Canada, il Brasile, soprattutt­o le aziende del petrolio di scisto (shale oil) negli Stati Uniti. Solo nel Golfo due terzi delle riserve restano estraibili con profitto anche quando il barile è a venti dollari.

Quindici mesi dopo, le petromonar­chie devono arrendersi alla nuova realtà: sul petrolio non comandano più loro. «La domanda non è quanto possano resistere i Paesi del Golfo a queste quotazioni, ma cos’altro possano fare» osserva Fabio Scacciavil­lani, capoeconom­ista del fondo sovrano dell’Oman. «La strategia messa in atto è ormai l’unica praticabil­e». Tagliare la produzione per far risalire i prezzi significhe­rebbe lasciare che l’Iran conquisti quote di mercato dell’Arabia Saudita e che lo shale oil riprenda a pompare negli Stati Uniti e, domani, anche di più in Argentina. Nas- ser Saidi, il super consulente di Dubai, riassume il nuovo equilibrio: «L’Arabia Saudita non è più il produttore marginale, quello che determina il costo del greggio — dice —. Quel ruolo oggi spetta ai produttori di shale».

L’effetto, previsto per la prima volta da un rapporto di Leonardo Maugeri per Harvard nel 2012, è una lunga era di prezzi freddi. A Dubai, quanto a questo, nessuno mette più la testa nella sabbia del deserto. «Non vogliamo più essere legati solo a una risorsa e a un prezzo, continuare a vivere come abbiamo fatto fino a oggi non è più un’opzione» dice Thani Ahmed Al-Zeyoudi, alto rappresent­ante degli Emirati nel settore dell’energia.

Nel frattempo però, in attesa di nuove fonti di reddito, resta l’urgenza di non far saltare i bilanci di questi Stati. Le entrate sono crollate del 10% del Pil e il Fondo monetario internazio­nale prevede nel Golfo un buco da mille miliardi l’anno. Per questo le monarchie scongelano le riserve per far fronte alle spese. Solo il valore del fondo sovrano dell’Arabia Saudita è crollato in un anno da 850 a 670 miliardi di dollari: tutte vendite di titoli che contribuis­cono ad affossare i mercati finanziari globali in questi mesi. L’approdo a una nuova normalità, visto dalla cima del Burj Khalifa, sembra ancora distante.

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