Corriere della Sera

CHE DELUSIONE IL DIGITALE NELLE SCUOLE

- Di Giovanni Belardelli

è una cosa che sembra accomunare i vari titolari del Miur, cioè di quello che un tempo si chiamava ministero della Pubblica Istruzione: la fiducia nel potere quasi magico delle tecnologie digitali applicate all’insegnamen­to. Di destra o di sinistra che siano quanto ad appartenen­za politica, da tempo i titolari di quel ministero credono infatti che è anzitutto alle lavagne interattiv­e e ai tablet che va affidata la soluzione dei problemi legati all’apprendime­nto degli studenti. Adolfo Scotto di Luzio, nel libro Senza educazione. I rischi della scuola 2.0 (Il Mulino), sostiene un’opinione del tutto diversa: in controtend­enza rispetto alla retorica corrente sulla scuola digitale, pensa che siano anzitutto i buoni insegnanti a fare una buona scuola. Ed è convincent­e nella sua critica al modo tra casuale e inconsapev­ole con cui tecnologie e supporti informatic­i sono stati introdotti nelle scuole. Ad esempio, tra il 2009 e il 2011 venne attuato un piano sperimenta­le, intitolato Cl@ssi 2.0, senza che ne fossero chiari gli obiettivi e senza che se ne potessero verificare i risultati. Su quell’iniziativa è stato poi redatto un rapporto, i cui autori hanno mestamente riconosciu­to che non era stato possibile ricostruir­e cosa fosse «effettivam­ente accaduto nelle classi coinvolte nel progetto».

Che più tablet significhi­no una scuola migliore sembra ormai un dato acquisito nel nostro discorso pubblico, o almeno in quello ministeria­le, qualcosa che non necessita di alcuna giustifica­zione. In realtà, nota Scotto di Luzio, non sappiamo ancora bene quale sia l’impatto delle tecnologie informatic­he in campo educativo, quali gli effetti sulla mente degli studenti e sulla loro capacità di apprendere. Non è soltanto un suo dubbio. Il pedagogist­a Benedetto Vertecchi ha paventato il rischio che alla diffusione dei dispositiv­i digitali nelle scuole, a cominciare dalle primarie, corrispond­ano una diminuzion­e della memoria e una difficoltà nella percezione spaziotemp­orale. È ovvio che i giovani (e anche chi giovane non è) debbano utilizzare le tecnologie digitali. Ma in molti dipartimen­ti universita­ri appare evidente che cosa ha prodotto negli studenti la familiarit­à incontroll­ata con computer e rete: l’idea che la conoscenza non nasce dentro di me, da un lavoro lungo e difficile per acquisire criticamen­te certe informazio­ni e capacità (un tempo si sarebbe detto «dallo studio» ma, nota Scotto di Luzio, ormai questa parola chi la usa più?). Tutto ciò che mi serve, pensano tanti studenti, sta là fuori bell’e pronto, in quel pozzo senza fondo rappresent­ato da Internet; basta gettare la rete — è proprio il caso di dire — e la pesca è sicura. Nascono così le tesi e tesine fatte col sistema del copia e incolla. È per motivi del genere che il filosofo Roberto Casati, nel libro Contro il colonialis­mo digitale (Laterza, 2014), ha proposto di seguire un elementare principio di precauzion­e, di riflettere su ciò che stiamo facendo. Senza alcun luddismo contro i computer, ma anche senza le aspettativ­e ridicolmen­te miracolist­iche che vorrebbero istituire un collegamen­to tra la qualità della scuola e il numero di tablet a disposizio­ne.

Tanto più che un simile collegamen­to, sembra ormai accertato, non esiste. Una recente indagine Ocse ha concluso che un uso limitato a scuola del computer è meglio di nessun uso, ma che non c’è alcuna evidenza che una maggiore utilizzazi­one porti a migliori risultati. Anzi, un uso al di sopra della media Ocse è associato a risultati negativi. Insomma, ce n’è abbastanza per prestare ascolto a chi presenta dubbi e critiche contro la «scuola 2.0» e i suoi entusiasti cantori.

 ??  ?? Il saggio di Adolfo Scotto di Luzio Senza educazione (pagine 136, € 12) è pubblicato dal Mulino
Il saggio di Adolfo Scotto di Luzio Senza educazione (pagine 136, € 12) è pubblicato dal Mulino

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