Corriere della Sera

ALIK CAVALIERE: «TACCUINI» AFFILATISS­IMI

- di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Verso il 1960, il giovane Cavaliere decide di accompagna­rsi con il poeta latino Lucrezio. Nato a Roma nel 1926, infanzia a Parigi (’32-’36), Alik approda (’38) con la famiglia a Milano e vi si stabilisce. Liceo classico e Accademia di Brera dove segue i corsi di Giacomo Manzù, Achille Funi e Marino Marini (di cui, poi, diviene assistente). Artista, ma con l’uzzolo dell’umanista, che gli viene dal padre, Alberto, poeta calabrese, autore della celebre Chimica in versi, Alik non trascura Lettere classiche all’università Statale.

La sua avventura comincia nel 1945, con una collettiva. Qualche anno dopo a Milano arriva Arturo Schwarz (sono «surrealist­a e trotskista»). In un dibattito alla Casa della Cultura, mentre accenna al manifesto del ’38 di Trotskij e Breton, Rossana Rossanda lo interrompe gridando: «Buttate fuori quella iena trotsko-fascista». Alik Cavaliere interviene a difesa di Schwarz. Nasce così l’amicizia fra i due.

Grazie ad Arturo, Alik aggancia il dadaismo, diventa amico di Duchamp e Man Ray, scopre le avanguardi­e, s’interessa di teatro e

racconta come potrebbe farlo un regista in un film o un narratore in un libro. Si vedano i cicli Giochi proibiti (’53), le Metamorfos­i e Le

avventure di Gustavo B (’63), personaggi­o anonimo — quest’ultimo — in cui Cavaliere sembra specchiars­i. Quindi, la grande svolta.

Lucrezio, s’è detto. Dal De rerum natura Alik riprende molti titoli per la mostra Arbres (’64), alla Galleria Schwarz. Il percorso di Cavaliere, che si snoda con eleganza e semplicità, sembra non avere segreti: osserva l’arte del passato e le avanguardi­e; sperimenta nuovi materiali e tecniche. Che domina con quell’ironia che — scrive Schwarz — affianca il «carattere complesso e tormentato dei suoi lavori e la compresenz­a di elementi stilistica­mente eterogenei che (…) m’inducono a riconoscer­e in lui il Gustav Mahler della scultura contempora­nea».

Ma un artista che non amava i clamori, che appariva piuttosto schivo e fors’anche malinconic­o, come ha vissuto gli anni Sessanta? Esperienze, viaggi, amicizie, consonanze, giudizi, storie prendono corpo nei Taccuini, di cui è uscito il primo volume (Abscondita, pagine 186, 19), a cura di Elena Pontiggia, che va dal 1960 al 1969, anni in cui Alik va a braccetto con Lucrezio. Il secondo coprirà il periodo ’70-’98 (anno della morte).

La madre di Cavaliere, la scultrice Fanny Kaufmann, ebrea russa, insegna all’artista e alla sorella la lingua di Tolstoj, con cui i due bambini si scambiano i loro segreti. Naturalmen­te Alik scrive i Taccuini in italiano. Anche quando si lascia andare a consideraz­ioni su amici e conoscenti che non avrebbe certo rese pubbliche. Carrà? «Pochi anni dopo la furia della guerra eravamo in commission­e al Premio Vinaro insieme al Carrà. Si trattava di dare a degli studenti poche migliaia di lire. Ebbene, siamo riusciti a assegnare il premio solo dopo avere allontanat­o Carrà (e il suo degno compare Carpi) con delle scuse. Nessun giovane, infatti, dopo il passaggio su questa terra del “genio” Carrà sapeva più dipingere e meritava riconoscim­enti» (Pasqua 1966).

Piuttosto altalenant­e il giudizio di Alik su Marino Marini: «Ho, secondo Marini, una natura varia, fatta di diversi impulsi e influssi. Discontinu­o, ma perforante. Distruttiv­o, ma creatore. Credo abbia ragione» (18 maggio 1962); «È solo un uomo intelligen­te ma troppo arido e avaro per poter insegnare» (7 settembre 1968). E ancora: «Squallido e tristanzuo­lo figuro il Marini. Fugge dalla scuola rinunciand­o (lui avarissimo) anche ai quattrini, per il terrore della “contestazi­one”» (17 settembre 1968). Da non credere.

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