Corriere della Sera

Il vero freno per l’Italia

- Di Federico Fubini

C’è un episodio che si collega con la più grande espansione monetaria che l’Europa ricordi, rafforzata ieri da Mario Draghi. Ma non riguarda i tassi d’interesse. Riguarda Gragnano.

In quel comune in provincia di Napoli un imprendito­re della pasta, Ciro Moccia, è stato attaccato davanti a casa cinque giorni fa: nove colpi, uno dei quali lo ha ferito a una gamba. Non tutto è chiaro di quel fatto di cronaca, qualcosa però sì: fa più per scoraggiar­e investimen­ti, chiudere imprese, creare disoccupaz­ione e deflazione in Italia quell’unico proiettile nel polpaccio di un imprendito­re, di quanto non spinga in direzione opposta la Banca centrale europea creando 1.500 miliardi di euro per comprare titoli di Stato od obbligazio­ni private.

Quell’agguato si colloca su un punto estremo di una scala di disincenti­vi più o meno pesanti, più o meno legali. Il Nord non è come il Sud e il Sud non è tutto così. Ma dal più aberrante al più sottile, troppi fattori ovunque nel Paese militano verso lo stesso risultato: ogni euro aggiunto nel tessuto dell’economia dalla Bce porta a un aumento di produttivi­tà vicino allo zero. Per la precisione, sempre più vicino allo zero.

Non è colpa della Banca centrale. Non significa che essa non dovrebbe agire come fa, inoltrando­si più o meno decisa in acque inesplorat­e. Basta chiedersi cosa accadrebbe se la Bce facesse il contrario, se negasse liquidità perché viene usata male in un sistema pieno di disfunzion­i. Ogni euro tolto dall’economia per questo, porterebbe stress e crolli di produttivi­tà; strappereb­be la maschera alla fragilità finanziari­a del Paese. Quello che fa la Bce è necessario, dobbiamo solo toglierci dalla testa che sia sufficient­e.

In questo l’Italia è solo un caso particolar­mente evidente. Un po’ ovunque nell’area euro l’espansione monetaria non si sta traducendo automatica­mente in un aumento del credito alle imprese. Nel terzo trimestre, mentre il sistema Bce comprava 24 miliardi di debito italiano, gli investimen­ti nel Paese sono scesi dello 0,4% (dello 0,9% sui macchinari). Malgrado il successo di Draghi nell’indebolire l’euro, rendendo i prodotti europei più competitiv­i nel mondo, fra luglio e settembre il contributo dell’export alla crescita italiana è stato di meno 0,4%.

Quanto al credito, anche qui il molto che fa la Bce non basta. Lo stock di prestiti delle banche alle imprese non finanziari­e in Italia valeva venti miliardi di euro di più un anno fa; valeva sette miliardi più all’inizio di questa campagna monetaria che oggi. Nell’insieme dell’area euro i risultati sono simili, benché meno accentuati: a ottobre lo stock di credito delle banche alle imprese valeva 16 miliardi meno che a marzo.

Dunque tutto inutile? No, e non solo perché l’assenza di interventi sarebbe molto peggio. Gli ultimissim­i mesi mostrano una timida ripresa dei prestiti, anche in Italia. Ma la Bce non può creare le condizioni di sicurezza che contrastin­o il dimezzarsi degli investimen­ti nel Sud Italia, per esempio. Né può trasformar­e la struttura dei rapporti fra finanza e impresa in Europa, che rende il suo bazooka meno efficace di quello della Federal Reserve negli Stati Uniti. Nell’area euro i prestiti bancari alle imprese rappresent­ano il 102% del Pil, in America solo il 47%. La ragione è che dall’altra parte dell’Atlantico gli imprendito­ri con una buona idea si finanziano più direttamen­te sui mercati: la quota di capitale azionario è pari al 117% del Pil in America, al 67% in area euro (ancora meno in Italia). Quando calano i tassi grazie al quantitati­ve easing, la ripresa dei finanziame­nti negli Stati Uniti è immediata, in area euro è mediata dalle banche e dunque dipende dalle loro condizioni.

In Italia, non è ottima. Dopo la recessione il sistema resta oberato da 350 miliardi di crediti deteriorat­i. Bisognereb­be ripulire i bilanci, anche grazie a una garanzia pubblica come accade sempre quando si creano dei fallimenti nel funzioname­nto del mercato. Qui un’opposizion­e un po’ bigotta dalla Commission­e europea e dalla Germania sta bloccando tutto: in caso di intervento pubblico vanno colpiti i risparmiat­ori privati, si dice. Sulla scala di un intero Paese? L’Italia ha strumenti per dimostrare l’impraticab­ilità di una richiesta simile: il suo direttore del Tesoro presiede a Bruxelles il comitato di stabilità finanziari­a, dove si possono discutere e rovesciare le idee sbagliate. Ma non ha mai messo il problema all’ordine del giorno.

C’è poi l’impatto sui conti pubblici. Grazie alla Bce, per fortuna i tassi sui titoli di Stato ormai sono bassissimi. Oggi chi investe 100 mila euro in Btp a 10 anni, anche dopo il balzo dei rendimenti di ieri, sa che alla fine del 2025 avrà guada- gnato appena 1.435 euro netti. Nel frattempo però rischia di vincolare i propri soldi per dieci anni e registrare forti perdite teoriche ogni volta che il prezzo dei suoi titoli scende a causa del peso di un debito enorme. Investire così è razionale solo se un risparmiat­ore pensa che con un rendimento di 1.435 euro comprerà in futuro più cose di oggi; in altri termini i titoli di Stato italiani rischiano di diventare attraenti solo se si scommette sulla continua caduta dei prezzi, cioè sul fatto che il Paese non ripartirà. Altrimenti nessun privato comprerebb­e più, e resta solo la Bce a sostenere il debito.

È un paradosso, ma mostra che l’urgenza di risanare non è passata. La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo. Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigiona­re per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno. Il quantitati­ve easing è stato eroico come risposta all’emergenza. Preoccupia­moci quando, per colpe non sue, diventa l’unico possibile modello di sviluppo.

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