Jet abbattuto, l’ira di Putin
La Turchia spara al confine con la Siria. Obama si schiera con Erdogan. Tunisia, strage di poliziotti
Jet russo abbattuto dal fuoco turco al confine con la Siria ( foto). «Ucciso dai ribelli uno dei due piloti». Putin: atto ostile. Obama si schiera con Erdogan. Riunito il Consiglio della Nato. In Tunisia strage di poliziotti.
GERUSALEMME Un bolide di fuoco che piomba in verticale sui boschi delle montagne turcomanne. Una scia di fumo. L’esplosione. Due puntini lontani, appesi al paracadute e al loro destino. A cadere in fiamme ieri mattina, nei video girati coi cellulari, non è stato solo uno dei tanti Su-24 russi che da settimane bombardano Raqqa e dintorni. E perdere ogni futuro non è toccato soltanto ai piloti di Putin, bersagliati come fagiani quand’erano ancora in aria e cercavano di toccare terra sicura. In pochi minuti, un solo razzo lanciato da due F-16 di Ankara ha precipitato ancora più giù l’intera crisi siriana e aperto la peggiore delle rotture diplomatiche fra due grandi governi dell’area. Perché nell’ultimo mezzo secolo non era mai successo, nemmeno nella Guerra fredda, che un Paese chiave della Nato abbattesse un aereo di Mosca «perché violava il nostro cielo». E neppure che un presidente russo congedasse rapido l’ospite di turno, casualmente il re di Giordania, e subito avvertisse gelido: questa è «una pugnalata alle spalle» dei «complici dei terroristi», «non tollereremo simili crimini» e tutto ciò avrà «serie conseguenze».
Le conseguenze per ora vengono dall’aiuto russo ad Assad, dall’azzardo pesante del presidente turco Erdogan, dalla voragine politica creata in quasi cinque anni di guerra. Non è bastato scrivere sulle bombe «for Paris», per di più in cirillico. E nemmeno regalare alla Guida suprema iraniana un gigantesco Corano, lunedì con la prima visita a Teheran dopo otto anni, pur d’averlo insieme contro il Califfo. Nella Caoslandia siriana, come insegna l’aereo abbattuto nel Sinai a fine ottobre, certi omaggi rischiano d’essere rispediti subito al mittente. E fra quattordici aviazioni che affollano i cieli di Siria, prima o poi doveva succedere. Lo sconfinamento sarebbe avvenuto sopra Yayladagi, provincia di Hatay. Il Cremlino nega su tutta la linea — «l’aereo era al di qua d’un chilometro» —, anche se già il 5 ottobre la Nato l’aveva ammonito per alcuni sorvoli nei cieli turchi, definendoli «irresponsabili» e fonte di «pericolo estremo». I turchi, che mostrano i tracciati radar, dicono «abbiamo le prove» per bocca di Onur Oymen, ex ambasciatore alla Nato: oltre al Sukhoi «c’era un altro jet pronto a superare consapevolmente il confine», tanto che i militari turchi avrebbero avvertito «dieci volte in cinque minuti» i due equipaggi prima di sparare. Non solo: poco dopo, anche un elicottero Mi-8 con dieci soldati d’equipaggio è stato centrato mentre cercava di salvare i piloti paracadutati, un contractor della Marina è morto. Per il dittatore siriano Assad, i razzi contro chi combatte l’Isis sono «un nuovo crimine» e «l’ennesima dimostrazione che ci sono la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar dietro i terroristi che vogliono rovesciare il governo di Damasco». Per Ankara, lo scopo risaputo degli sconfinamenti russi è invece quello di bombardare i turcomanni della regione, ostili proprio ad Assad, tre milioni di persone che parlano turco e da dieci secoli vivono tra l’Iraq, l’Iran e la Siria. Sono giorni che i Sukhoi li colpiscono: duemila profughi negli ultimi tre giorni sono arrivati in Turchia. E anche i loro diecimila miliziani sono una delle tante, piccole storie del complicato fronte siriano: a lungo vicini ai qaedisti di Al Nusra, ricevettero aiuti dall’Occidente nel 2012, quando furono tra i primi a dichiarare guerra aperta al dittatore di Damasco. Oggi le Brigate turcomanne siriane fronteggiano contemporaneamente Assad e l’Isis, con qualche loro milizia più anarchica che non disdegna l’alleanza dei curdi. Erano loro a gridare «Allah è grande», ieri mattina, nei boschi verso Yayladagi. E a comparire in un video dopo l’abbattimento, tutt’intorno a un pilota russo che sembrava ferito grave: «I nostri uomini — dichiarava orgoglioso Jahed Ahmad, portavoce dei ribelli della Decima brigata — hanno aperto il fuoco mentre si paracadutavano”. Non si sa con precisione che fine abbiano fatto i due: fonti turche sostengono che non sono morti e che una trattativa sarebbe intavolata per riaverli; i russi dicono d’aver tentato di recuperarne almeno uno, ancora vivo. I turcomanni smentiscono: «Erano in cielo e abbiamo sparato mentre stavano scendendo — ha sentenziato il viceco-
Erdogan: il jet russo abbattuto ha superato il confine. Putin: pugnalati alle spalle
mandante Alpaslan Celik, mentre alle sue spalle i fedelissimi mitragliavano dalla gioia —: sono morti tutt’e due in aria. Siamo pronti a scambiare i loro corpi coi nostri compagni prigionieri di Assad».
Vivi o morti, che si vorrebbero tanto dimenticare. E presto. Il ministro degli Esteri russo, Lavrov, cancella la sua visita prevista (oggi) in Turchia, ordina ai tour operator di tenere a casa i quattro milioni di russi che ogni anno visitano Istanbul e la Cappadocia, probabilmente farà saltare due accordi energetici con Ankara. Però qualcosa significa, se la tv di Stato non accusa mai Erdogan: si parla solo di «ribelli anti Assad». Perché le relazioni col Sultano turco restano fondamentali. E perché Obama, considerando Mosca «un’eccezione» nella grande coalizione mondiale contro l’Isis — «la sua è una coalizione a due con Assad» —, difende l’alleato neo-ottomano. E infine perché è la Nato a raffreddare: «Abbiamo elementi» per sostenere che lo sconfinamento c’è stato, dice il segretario generale Stoltenberg, ma tutto serve adesso, meno che andare al confronto con Mosca. Non lo si fece per l’invasione dell’Ucraina: può bastare un aereo sconfinato in Turchia?