IL BELGIO BLOCCATO È UNA SCONFITTA
«Osanno dove sono i terroristi, e allora devono andarli a prendere, oppure bloccare una capitale così non ha senso»: lo dice il giallista belga Pieter Aspe.
«Trovo un po’ esagerato tutto questo spiegamento di forze e il blocco completo della città, temo che vada a vantaggio dei terroristi» dice Pieter Aspe, giallista belga. «Bruxelles adesso è morta, e per me è una vittoria dei terroristi. Non si può prendere una misura del genere per una settimana o per mesi, e il rischio di un attentato ci sarà ancora tra settimane e mesi. È una dichiarazione di impotenza. O sanno dove si trovano i terroristi, e allora devono andarli a prendere, oppure bloccare una capitale non ha senso». Allora perché lo fa? «Perché non ha il controllo della situazione. Prende un provvedimento così clamoroso per dare una parvenza di autorità. Vogliono mostrare che tutto è in sicurezza, ma la verità è che è impossibile garantirla. Si può essere prudenti e mettere più agenti nelle strade, tutto qui. Il governo ha fatto errori gravi in passato. I servizi segreti sapevano, e niente è stato fatto». Perché? «Credo che molti politici abbiano paura della reazione degli islamisti. Ma se lasciamo fare diventa sempre peggio. Bisognava prendere i responsabili. Ovviamente non prendersela con i musulmani in generale ma fare degli arresti negli ambienti jihadisti, che sono conosciuti a tutti. Si sapeva che queste persone erano molto pericolose. Perché hanno aspettato a fare perquisizioni e arresti? Il Belgio è stato troppo timido nei confronti dei jihadisti. Nessuno dei politici oggi osa dire la verità, e cioè che sono stati commessi errori enormi negli anni passati. Abbiamo permesso che i terroristi si organizzassero, senza disturbarli troppo».
Da sabato, decine di arresti: quasi che il governo tenti di recuperare il tempo perduto...
«Ma adesso è un po’ tardi, sembra una messinscena. Guardiamo a Parigi: quel che è successo può accadere di nuovo, i terroristi possono tornare e il governo lo ricorda ogni giorno, ma la città non è stata blindata in questo modo. Se le autorità sanno dove sono i terroristi d’accordo, il blocco ha un senso per un giorno al massimo. Una minaccia imminente non può durare tre giorni. Significa che non sanno che fare».
Una responsabilità ce l’ha anche il sistema federale del Belgio?
«Bruxelles è fatta di diciannove Comuni, ognuno con una propria forza di polizia e un borgomastro (una sorta di sindaco, ndr), non è una città unica. I francofoni maggioritari non vogliono condividere il potere ed ecco anche perché sono stati permissivi, si trattava di restare popolari tra gli stranieri». Per esempio a Molenbeek? «Il borgomastro sapeva benissimo che Molenbeek era diventata uno dei centri dei jihadisti. I piccoli Comuni sono dei piccoli regni, con il loro re e la loro corte. Non c’è alcuna capitale al mondo che abbia 19 borgomastri. Hanno cercato un compromesso, ma così è troppo». Di questo parla nei suoi romanzi? «Nel mio ultimo romanzo uscito in Belgio ho capovolto il problema, racconto che cosa potrebbe succedere se degli estremisti cattolici prendessero le armi per imporre la loro fede. Ma è ovvio, bisogna sostituire i cattolici del romanzo con gli islamisti, ed è la realtà di oggi. Ma in tutti i miei romanzi, anche quello che sta uscendo in Italia edito da Fazi, “Il caso Dreyse”, parlo di questi temi».
Una questione che il mondo ha giudicato a lungo come un problema locale, ossia le relazioni tra fiamminghi e valloni in Belgio, ha finito per avere conseguenze planetarie?
«È così. I francofoni non comunicano con i fiamminghi e viceversa. Ognuno si tiene le informazioni per sé, è un po’ criminale. I diversi servizi avrebbero dovuto comunicare tra loro. I borgomastri vedono il territorio come il loro territorio, anche le polizie sono separate. Se un terrorista passa da un Comune all’altro, il poliziotto per intervenire deve chiedere il permesso al nuovo Comune, è una situazione folle».
O sanno dove si trovano i terroristi, e allora devono andarli a prendere, oppure bloccare una capitale non ha senso