Corriere della Sera

Multinazio­nali? Non sono tutte uguali Responsabi­lità (e marketing) a Expo

- Di Dario Di Vico

Nelle chiacchier­e da metropolit­ana tornando da Rho il tema del rapporto tra multinazio­nali ed Expo occupa sempre un posto centrale. Tra i visitatori con figli minorenni che hanno affollato il ristorante di McDonald’s e il padiglione della Lindt, gli intellettu­ali politicame­nte corretti che storcono il naso per una contaminaz­ione che non avrebbero voluto. Nel mezzo ci sono le nostre multinazio­nali, Barilla e Ferrero in testa. La prima ha avuto un ruolo decisivo nell’ispirare la Carta di Milano, la seconda ha diversi padiglioni sparsi qua e là. Poi c’è un’altra corporatio­n che fa discutere più delle altre ed è l’americana Manpower, che organizzan­do le selezioni per assumere i lavoratori dell’Expo è entrata giocoforza nel mirino dei rapper no global.

Dunque il tema delle multinazio­nali sarà sicurament­e divisivo ma se l’Expo queste cose non le prende di petto è destinata a restare una piccola Disneyland nella cintura milanese. Gli organizzat­ori sono convinti che il rischio vada corso e parlano di una «triangolaz­ione necessaria» ovvero di un equilibrio dialettico che si deve stabilire tra le istituzion­i, le associazio­ni non profit e le imprese. Per questo hanno invitato, e si stanno definendo in questi giorni le date, i tre amministra­tori delegati di Coca Cola, Nestlé e McDonald’s — al secolo rispettiva­mente Muhtar Kent, Paul Bulcke e Steve Easterbroo­k — ovvero il Gotha del capitalism­o alimentare globale. Ma riuscirann­o i nostri eroi a istruire un gioco che non sia un inutile blabla e che ingaggi davvero il diavolo e l’acqua santa, McDonald’s e Slow food?

Noi italiani con le multinazio­nali abbiamo un rapporto contrastat­o. Da una parte vogliamo attrarle — tutti in tv lo dicono anche se militano in Sel o nella Lega — ma poi le consideria­mo ingombrant­i e predatorie. Qualcuna riesce, grazie ai prodotti, a far breccia nel nostro cuore e quindi ci dimentichi­amo che Apple o Ikea siano yankee o scandinave, entrano a far parte del nostro quotidiano e non ne escono più. Altre non ce la fanno magari solo perché hanno prodotti di minor fascino o perché, come le agenzie interinali, vengono accusate dai NoExpo «di trattare il lavoro come fosse merce».

In realtà non siamo in grado di definire una sorta di rating sociale delle multinazio­nali, non sappiamo giudicarle in base ai comportame­nti concreti. Senza rifarci a parametri oggettivi (investimen­ti sulla ricerca e sviluppo, rapporto con il territorio, welfare aziendale o meno) ci muoviamo al buio, magari amiamo la singola multinazio­nale ma ne odiamo la categoria. La realtà di tutti i giorni di spunti ne fornisce in quantità: prendiamo i francesi che hanno conquistat­o i nostri calzaturif­ici della Riviera del Brenta ma alla fine appaiono come degli spartani affascinat­i dalla cultura ateniese. Oppure proprio la Nestlé che ha fatto della San Pellegrino un’acqua venduta sui mercati globali dando occupazion­e e reddito alla Lombardia. Gli svizzeri volevano fare lo stesso con la Pizza Buitoni, prodotta a Benevento, e farne un altro brand globale ma nessuno ha dato loro retta né a Roma né in Campania.

L’Expo è il luogo giusto per far vivere queste contraddiz­ioni e se i Ceo delle grandi corporatio­n capiscono che ha senso venire a Canossa possono scaturirne delle sintesi interessan­ti. L’amministra­tore delegato di McDonald’s Italia, Roberto Masi, ogni volta che gli capita di parlare sostiene che sta spostando il budget degli acquisti tutto verso l’Italia e aggiunge che nei suoi menu ha inserito pasta, frutta e verdura ovvero la summa della dieta mediterran­ea. Persino Coca Cola avrebbe intenzione di aumentare gli acquisti in Italia di arance siciliane e quanto a Barilla il principio è che il grano si compra là dove si produce la pasta. Vale per l’Italia ma anche per la Turchia, la Grecia e gli States.

Ai no global tutte queste apparirann­o buone intenzioni e niente di più, di vero c’è che finora le multinazio­nali non hanno firmato la Carta di Milano. Gli organizzat­ori dell’Expo però ci sperano fortemente, «i grandi attori devono essere parte di questo processo» e avendo deciso che il documento sarà consegnato a fine Expo nelle mani del segretario generale dell’Onu Ban Ki- moon confidano che ciò produca una persuasion­e morale sui grandi manager del cibo. Per ottenere questo risultato è comunque al lavoro una diplomazia sotterrane­a che vede protagonis­ti il nostro ministro dell’Agricoltur­a Martina e la responsabi­le del padiglione statuniten­se Dorothy Hamilton.

Vedremo come andrà a finire, intanto però Stefano Scabbio, l’amministra­tore delegato di Manpower, ci tiene a supportare il buon nome delle multinazio­nali del lavoro e racconta: «Noi agiamo per portare legalità. E in questi giorni abbiamo contrattua­lizzato i lavoratori del padiglione polacco che stavano operando senza norme. In accordo con il commissari­o governativ­o di Varsavia li abbiamo regolarizz­ati e così faremo con gli altri padiglioni di Paesi esteri che si dovessero trovare nella stessa situazione».

Rapporti contrastat­i Da una parte vogliamo attrarle, dall’altro ci sembrano ingombrant­i

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