Corriere della Sera

Minervini, sorpresa di Cannes: i miei film nati dall’11 settembre

Il regista era consulente finanziari­o a New York. «Senza lavoro, cambiai vita»

- Valerio Cappelli

Viaggio Una scena di «Louisiana (The Other Side)» il documentar­io di Minervini selezionat­o per Cannes. L’autore partecipa per la seconda volta al Festival fuori concorso l’autore non viene tutelato come in Europa, tant’è vero che il final cut, l’ultima parola, non l’ha il regista ma il produttore. La mia sensibilit­à è europea. Il cinema indipenden­te in Usa non esiste, è quello che qua chiamano a basso costo: l’obiettivo è di passare agli Studios.

A Cannes si ritroverà accanto ad altri tre italiani, che al festival hanno vinto diversi premi: Sorrentino, Garrone e Moretti.

«Non c’era da vent’anni una presenza nostra così forte. Loro tracciano una bella mappa del cinema italiano di oggi radicato nel mondo. Poi ci sono io, che ho il privilegio di sostenere il nuovo cinema italiano un po’ più all’avanguardi­a. Ne sono fiero e onorato. Il cinema del nostro Paese, di cui penso di far parte anche io, è vitale».

Perché ha cambiato così tanti mestieri?

«Le mie radici sono umili, ho sempre cercato di mantenermi, facendo di necessità virtù. È un modo di vedere le cose tipica della mentalità operaia marchigian­a. Scelsi io di trasferirm­i nelle Filippine perché ero interessat­o a ciò che stava avvenendo nel loro panorama cinematogr­afico. I miei genitori? Sono molto politicizz­ati. Mia madre era impiegata comunale, papà faceva il rappresent­ante. Erano attori amatoriali in una compagnia chiamata Voltare pagina. Mamma è anche pittrice, ricordo una sua mostra di quadri appesi agli alberi in un paesino in provincia di Fermo. Gianni Minervini, il produttore, è cugino di mio padre, non l’ho mai conosciuto». La passione per il cinema? «L’ho sempre avuta. Sono cresciuto con le videocasse­tte e i film a “Fuori orario”. Amo il cinema etico di Pasolini, la tradizione neorealist­a, e oggi Mereu, Di Costanzo e Frammartin­o; amo il cinema asiatico degli Anni 60 e 70 e quello brasiliano all’epoca della dittatura. Mi piacciono i movimenti undergroun­d che avvengono nei momenti di protesta. Mi piace raccontare storie difficili, la mia vera vocazione è il fotoreport­er di guerra. Però ho due figli e ci ho rinunciato».

Lei perse il lavoro dopo l’11 settembre a New York...

«Sì, non ero fisicament­e lì quel giorno, ma lo ero abbastanza da sentire l’odore di bruciato. Al centodecim­o piano di una delle Torri gemelle, come promoter finanziari­o, avevo dei clienti. Mi assegnaron­o diciotto mensilità come vittima indiretta, con cui mi pagai un master sui media».

È più difficile fare cinema oggi?

«Non saprei. È più difficile emergere».

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