Corriere della Sera

Io, prigionier­o in quelle stanze dove cerchiamo di dare giustizia

- Di Giuseppe Buffone

Sono da poco passate le 11. Siamo al sesto piano del Palazzo di Giustizia, in udienza. I suoni di sottofondo, all’improvviso, cambiano. I telefoni squillano, si sente il calpestio di passi veloci. Risuona un boato. Siamo raggiunti da un avviso via telefono: barricarsi in stanza, pericolo di un uomo armato. Arriva anche un ordine di servizio urgente del presidente del Tribunale: sospendere le udienze, porsi in condizioni di sicurezza. Apriamo le porte delle stanze: cittadini, parti e avvocati vengono raccolti nelle aule dei giudici. Siamo tutti insieme. Abbiamo ancora la toga addosso: sembra quasi che infonda sicurezza in questo momento. Qualcuno così ci può riconoscer­e, sapere che siamo magistrati. Ma noi la teniamo addosso. Lascio l’aula per raggiunger­e la mia stanza dove c’è la mia collaborat­rice. Ci barrichiam­o. È partita una caccia all’uomo che potrebbe essere proprio tra il sesto e il settimo piano. Mi guardo attorno e mi siedo: come mai non siamo al sicuro nel Palazzo che dovrebbe essere il simbolo della sicurezza? Nella stanza a fianco c’è una famiglia. L’intero piano ospita le cause familiari e dei minori. Ci sono tanti genitori: vedo la loro paura negli occhi. Vorrei dir loro qualcosa. Sono quasi le 12. Arriva la notizia agghiaccia­nte. Ci sono dei morti, forse tre. Cerchiamo di comunicare all’esterno ma le linee sono in tilt. Irrompe una voce: un giudice è stato ammazzato. Nel Palazzo di Giustizia, un magistrato è stato ucciso. Nel Tribunale di Milano, delle persone sono state assassinat­e. Il tempo sembra infinito finché non arriva una prima squadra di forze dell’ordine: evacuiamo cittadini e avvocati. Restiamo noi giudici. Insieme. Sono quasi le 13, ci avviamo anche noi all’esterno del Tribunale. Il killer è stato preso. Silenzio. È quello che si vede sui volti di tutti i colleghi, delle forze dell’ordine, tra le persone incredule radunate oltre i cordoni di sicurezza e gli avvocati. Silenzio: non quello della rabbia o della paura. Il silenzio della sofferenza. Un altro giudice è stato ammazzato, perché un’altra persona l’ha deciso. Quella persona verso la quale il magistrato applicava la Legge, in nome di tutti noi. Uccidere un magistrato è un attentato alla giustizia, un attentato allo Stato di Diritto. Chi, domani, con una pistola in tasca, cercherà di nuovo di entrare in un Tribunale per attentare alla nostra giustizia? Chi assumerà come suo impegno quello di uccidere un giudice? Uccidere un giudice. Un uomo dello Stato. Non penso a chi sia responsabi­le per quello che è accaduto, penso a chi sarà responsabi­le per non avere fatto già oggi quello che è necessario affinché questa mattanza non accada più. Perché i magistrati sono al servizio di tutte le persone che hanno sete di giustizia. E, allora, uccidere un magistrato è fare un torto a tutti, uccidere una parte di tutti noi. Non si può avere paura in Tribunale, non si può temere per la propria vita, non si può morire di giustizia. Vi prego: non accettiamo­lo. Mai.

(*magistrato del Tribunale di Milano)

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