Corriere della Sera

I bambini abbandonat­i e le adozioni negate

- Di Susanna Tamaro

Con l’adozione ai single uomini e donne potevano arricchire la loro esperienza umana con la dimensione del dono genitorial­e, prendendos­i cura di bambini già nati che languono in tetri orfanotrof­i.

Fa una certa impression­e vedere come ormai una singola battuta o un’affermazio­ne — peraltro pienamente condivisib­ile dalla maggior parte dell’umanità — come quella di Domenico Dolce possa scatenare una furia mediatica capace di annientare ogni tipo di resistenza e di rendere timoroso chiunque abbia in mente di affrontare l’argomento da un punto di vista diverso. Si tratta di un incendio che divampa e si diffonde come quelli che si scatenano nelle aride terre di fine estate, quando il vento spinge le fiamme a divorare ogni cosa.

Bene ha fatto dunque Aldo Busi, su queste pagine, a denunciare quella che è una vera e propria dittatura mediatica, affrontand­o con coraggio e lucidità il tabù degli uteri in affitto. Personalme­nte, come essere umano e come donna, sono sempre stata inorridita da questo termine. Un utero in affitto, come un bungalow o una macchina in affitto. Peccato che non tutti ricordino, come ha ben detto Busi, che intorno all’utero c’è un essere umano, vale a dire una donna. Una donna che, nella stragrande maggior parte dei casi, si trova in condizioni di difficoltà e che è costretta a vendere la parte più intima e sacra della sua vita per poter sopravvive­re. Naturalmen­te, chi usufruisce di questo «servizio» si trincera dietro l’animo nobile del benefattor­e. Quei soldi, in fondo, toglierann­o una famiglia dalla fame, si sostiene.

Personalme­nte credo che lo sfruttamen­to del corpo di un altro essere umano per i propri fini non rientri propriamen­te in questa categoria ma, piuttosto, in quella dello schiavismo. Se ci fosse davvero la volontà di aiutare queste donne, ci si potrebbe impegnare in un piano di istruzione o di microcredi­to per permettere una reale modifica delle loro condizioni di vita, piuttosto che comprare il loro utero. In realtà, il ruolo fisiologic­o in cui questo ormai sempre più diffuso movimento d’opinione vuole relegare la donna non è molto diverso da quello di certi pesci abissali dove — in questo caso specifico il maschio — anziché avere un’identità propria, si trasforma in una minuscola escrescenz­a sul corpo della femmina per poter fornire i suoi spermatozo­i.

Dunque la discussion­e non è tanto tra ciò che è progressis­ta e ciò che retrogrado e oscurantis­ta, ma piuttosto su ciò che è umano e ciò che rischia di non esserlo. In questo contendere, inoltre, si assiste a un curioso fenomeno. Tutto ciò che la scienza ci ha spiegato negli ultimi decenni, infatti, — il profondo dialogo che avviene nei nove mesi tra madre e figlio e tra il nascituro e l’ambiente circostant­e, dialogo che è fondante per lo sviluppo e l’equilibrio dell’essere umano — viene cancellato in nome di un sentimenta­lismo onnipotent­e convinto di poter annullare, in virtù della sua stessa forza, tutti gli ostacoli. Selezionan­do le caratteris­tiche della donatrice, si pensa di aver fatto il passo più importante, ignorando così la millenaria memoria del Dna e i fattori ereditari che si porta dietro.

Certo, i bambini quando nascono sono tutti deliziosi, ma quei bambini un giorno crescerann­o e, a differenza dei cuccioli di altre specie, avranno un piccolo problema, quello di interrogar­si sulla loro origine. A chi appartiene questo naso, e questi occhi? Da dove vengono queste inclinazio­ni che mi rendono diverso da tutti quelli che mi circondano? In questo universo dominato dalle tecnoscien­ze, non si prende mai in consideraz­ione che l’essere umano è tale in quanto vive nella dimensione della memoria. E memoria vuol dire conoscere la propria genealogia. Privare volontaria­mente un essere umano della sua genealogia è un atto di grave azzardo sul quale forse non si è riflettuto abbastanza. Un giorno quella persona saprà di essere venuta al mondo in seguito a un contratto commercial­e.

Fa impression­e che contro un’affermazio­ne di Dolce si sia scatenata tale furia mediatica L’utero in affitto? Lo sfruttamen­to del corpo di una donna per i propri fini è schiavismo

Per il principio di non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso, penso che scoprire questa realtà possa essere piuttosto traumatizz­ante. Io non vorrei venire a sapere, da adulta, che una brillante studentess­a ha venduto il suo ovulo, dunque metà di me stessa, in cambio di denaro, e che una povera donna, in qualche slum del terzo mondo, sempre per denaro mi ha portato in grembo per nove mesi.

Questo scontro epocale — in cui per stare dalla parte di ciò che è davvero umano ci vuole sempre più coraggio — ha finito per creare delle barriere di ottusità mentale da entrambe le parti che forse è ora di cominciare ad affrontare e a divellere. La battaglia non è, come si vuol far credere, tra progressis­ti e integralis­ti reazionari, ma piuttosto tra chi è consapevol­e della profondità e della complessit­à dell’essere umano — e crede quindi che alcuni principi vadano tutelati — e chi invece pensa che il sentimento e il desiderio individual­i siano la via maestra per abbattere qualsiasi ostacolo.

Questa inesausta schermagli­a ha fatto già delle vittime sul campo, tra cui la più grave è stata, a mio avviso, quella recentemen­te avallata dal governo di confermare il divieto di adozione per le persone singole. Scelta fatta soprattutt­o per evitare lo spettro dell’adozione da parte di persone eventualme­nte omosessual­i, come se le coppie dello stesso sesso fossero formate, per principio, da esseri depravati, disturbati e incapaci di offrire amore. Il che naturalmen­te non è. Anzi, credo proprio che — grazie al percorso di sofferenza che spesso porta con sé questa condizione nella nostra società — gli omossessua­li abbiano sviluppato una disponibil­ità e una ricchezza affettiva a volte più profonde di chi queste asperità non ha mai dovuto affrontare. Non bisogna dimenticar­e che, prima delle inclinazio­ni sessuali, c’è sempre la persona. E la persona, o è etica o non lo è, o sa donarsi o vive di proiezioni narcisitic­he.

Aprire l’adozione ai single avrebbe dato la possibiltà a tanti uomini e a tante donne di arricchire la loro esperienza umana con la dimensione del dono genitorial­e, prendendos­i cura di bambini che sono già nati e che languono in qualche tetro orfanotrof­io. Attualment­e ci sono al mondo 162 milioni di bambini abbandonat­i, mentre in Italia ne sono disponibil­i, da subito, 300. Credo che ognuno di loro sarebbe molto più felice di crescere con una madre sola, con un padre e uno zio, o con due zie, con dei nonni e dei cugini piuttosto che nella più efficiente e linda delle case famiglia. Certo, sarebbe ottimale avere un padre e una madre, che magari si vogliano anche bene, ma la cronaca ci dice che questa, purtroppo, non è più la regola, così come l’eterosessu­alità non è più di per sé garanzia di stabilità ed equilibrio educativo, consideran­do la quantità sempre crescente di crimini compiuti in famiglia.

È vero che il discorso della mancanza di genealogia si può applicare anche ai bambini adottati, ma — differente­mente dai figli concepiti con le tecniche più moderne — loro sono già su questa terra, hanno già bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro, offrendo loro casa e amore.

Un mondo e una politica che avessero davvero a cuore l’umano si batterebbe­ro dunque per estendere — e soprattutt­o facilitare nei tempi, nei modi e nei costi — le pratiche per poter permettere le adozioni anche ai single. Pratiche che ormai, grazie alla crisi, alle difficoltà burocratic­he, ai costi proibitivi e all’introduzio­ne dell’eterologa, hanno subito in Italia un crollo verticale. Certo in questo caso, il bambino non nascerebbe in casa e magari arriverebb­e grandicell­o, con un bello zainetto di problemati­che sulle spalle, ma non è proprio questa l’idea della maternità e della paternità? Poter accogliere ciò che è piccolo e fragile, cercando di aiutarlo, attraverso il dono di sé, a diventare grande e forte?

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