La vicenda
Francesco Furchì se ne vorrebbe andare. Prende il soprabito e si volta verso l’uscita (nel processo aveva ottenuto di non essere relegato nella gabbia per i detenuti), ma è circondato dagli agenti della Penitenziaria. Anche questa volta in carcere dovrà tornarci, e rimanerci per tutta la vita. È appena stato condannato all’ergastolo per l’assassinio di Alberto Musy, il docente universitario crivellato di colpi il 21 marzo 2012 nel cortile di casa sua. «Non è giusto, sono innocente», dice l’imputato a voce alta e con tono deciso. A pochi metri da lui c’è Angelica Corporandi d’Auvare, vedova di Alberto Musy. Non riesce a trattenere le lacrime: «Finalmente so che cosa dire alle mie bambine quando tornerò a casa. Sono contenta per loro, tutto questo è per loro. La verità la dedico alle mie quattro figlie. Mi aspettavo un verdetto del genere — spiega la donna —. Per noi questa decisione rappresenta una liberazione». Francesco Furchì e Angelica Musy sono i due volti del processo, due volti che non si guardano. Entrambi hanno ascoltato in piedi e immobili la lettura della sentenza. Nessun dubbio per i giudici togati e per i sei popolari che per dieci mesi hanno ascoltato testimonianze e studiato carte, verbali e perizie. Per loro ad ammazzare l’ex consigliere comunale è stato il faccendiere calabrese. Fu lui a sparare, fu lui a indossare casco e impermeabile e ad attraversare a piedi mezza città in cerca di vendetta. I giudici della prima sezione della corte d’Assise di Torino, dopo quasi tre ore di camera di consiglio, hanno accolto la richiesta del pubblico ministero Roberto Furlan, fondata sull’intuito investigativo e su indagini complesse condotte dal capo della mobile di Torino Luigi Silipo, e condannano l’imputato alla pena più alta e al pagamento di provvisionali per un totale di un milione e duecentomila euro. Annuncia appello e una lunga e dura battaglia legale Giancarlo Pittelli, l’avvocato di Furchì: «È stato costruito — dice — un percorso indiziario disseminato di forzature e di falsi clamorosi».