Corriere della Sera

Risponde

- Lettera firmata

Giario Conti, presidente della Società italiana di Urologia oncologica

Ho 65 anni e dopo un controllo del PSA (lo faccio ogni anno da cinque anni) risultato più elevato del solito ho fatto una biopsia. L’esito indica la presenza, come riporto tale e quale, di un: adenocarci­noma acinare della prostata, di piccole dimensioni, con «Gleason score» basso.

Il mio urologo ha programmat­o una ripetizion­e della biopsia a distanza di sei mesi e mi ha detto che, se non cambia nulla, potrei non fare nessuna terapia anche per molti, molti anni.

Ma io non sono per niente tranquillo e, essendo ignorante in materia, mi chiedo: perché non intervenir­e subito? Perché si parla tanto di prevenzion­e e poi si perde del tempo? Cosa rischio non facendo nulla? l tumore che le hanno diagnostic­ato è di piccole dimensioni e non sembra essere aggressivo (il Gleason è basso così come il PSA non è elevatissi­mo). Le è stato quindi correttame­nte proposto un atteggiame­nto di «sorveglian­za attiva» che trova una precisa, e ormai codificata, indicazion­e nei casi di carcinoma prostatico a rischio di progressio­ne molto basso. In questi casi procedere immediatam­ente con un atto invasivo (intervento chirurgico, radioterap­ia o brachitera­pia) potrebbe rappresent­are un eccesso di cura in quanto gli effetti collateral­i di ognuna delle terapie potrebbero essere eccessivi e non giustifica­ti in relazione al pericolo molto modesto che lei corre.

Mi spiego meglio. Prostatect­omia radicale, brachitera­pia e radioterap­ia possono avere conseguenz­e indesidera­te, come incontinen­za, disfunzion­e erettile, irritazion­i della vescica e del retto. D’altro canto il suo tumore sembra uno di quelli che, nella maggioranz­a dei casi, restano «fermi» nel tempo, non crescono, non danno metastasi a distanza, non influenzan­o la salute e soprattutt­o non causano la morte del paziente, che solitament­e arriva alla conclusion­e della vita per altre patologie o per decesso naturale.

Allora perché intervenir­e subito? Perché esporla al rischio di effetti collateral­i, quando sappiamo da studi scientific­i approfondi­ti che possiamo tenerla sempliceme­nte sotto attento controllo? Per la sorveglian­za attiva esistono protocolli ben definiti a livello internazio­nale che prevedono, in casi come il suo, di procedere solo con controlli sistematic­i. E quindi con il test trimestral­e del PSA, la valutazion­e clinica con esplorazio­ne rettale ogni sei mesi, la ripetizion­e della biopsia dopo un anno, quattro anni e sette anni dalla prima, per valutare l’opportunit­à di proseguire con la sola osservazio­ne o decidere di passare tempestiva­mente a una terapia attiva nel caso la neoplasia dia segni di evoluzione.

Questo non contraddic­e affatto il concetto di prevenzion­e come lei sembra temere: la diagnosi precoce serve soprattutt­o a evidenziar­e le neoplasie pericolose e che quindi necessitan­o di un trattament­o immediato, ma se il tumore è «indolente» potrebbe non essere indispensa­bile aggredirlo subito in modo invasivo. Sappiamo ormai con certezza dall’esperienza di svariate migliaia di uomini già seguiti con la sola sorveglian­za attiva che questa è assolutame­nte una strategia valida.

È fondamenta­le però che il paziente capisca bene che «è al sicuro»: lo scopo è risparmiar­e i «costi inutili» delle cure, anche in termini di qualità di vita. Costi che non devono però poi essere pagati a livello psicologic­o con una mancanza di serenità perché ci si sente continuame­nte minacciati dall’esistenza del tumore. La condivisio­ne delle scelte fra medico e paziente (e famigliari) è sempre fondamenta­le, in questo caso lo è ancora di più.

Risponde

Paolo Nucci, direttore Clinica oculistica universita­ria, Ospedale San Giuseppe Milano

Risponde

David Fletzer, fisiatra, Società italiana di medicina fisica e riabilitat­iva

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