LA MIOPIA DI UNA RIFORMA CHE SVILISCE LE BIBLIOTECHE
Con la riforma del ministero dei Beni e delle Attività culturali il processo di liquidazione del patrimonio archivistico e librario affidato alle cure dello Stato giunge al suo esito estremo: le biblioteche storiche (e gli archivi) sono in gran parte private del ruolo dirigenziale, la loro direzione affidata a impiegati senza preparazione specialistica e vengono ridotte al rango di uffici periferici del ministero, variamente accorpate ad altri uffici, secondo le Regioni.
Le biblioteche di Roma e Firenze sotto la direzione delle rispettive Biblioteche nazionali, altre ricondotte in un non ben identificato «polo museale»: la Braidense di Milano è assorbita nell’annunciata Grande Brera, l’Estense di Modena accorpata alla Galleria.
Si dimentica che per dirigere biblioteche cariche di storia con vastissimi patrimoni librari — come la Braidense, la Laurenziana, l’Angelica e la Casanatense, l’Estense — si debbono avere alti livelli di specializzazione in storia del libro, della cultura, con ottima conoscenza delle lingue classiche e moderne. La Laurenziana, cuore dell’Umanesimo europeo, non può essere affidata a un bravo burocrate ministeriale.
Invece, mentre per un manipolo di venti musei, elevati di rango, si prevede giustamente un concorso internazionale per la scelta del direttore, per le biblioteche statali ogni selezione concorsuale, ogni preparazione professionale appare superflua: ovviamente i riformatori del ministero non sanno cosa sia una biblioteca, ignorano che senza le nostre biblioteche e gli archivi sarebbe impossibile capire le opere esposte nei più prestigiosi musei.
Ma tant’è: le biblioteche e gli archivi non staccano biglietti d’ingresso a pagamento, quindi non appartengono al «sistema cultura» intesa dal ministero come strumento di introiti per lo Stato.
Nella prospettiva ragionieristica e aziendalistica ministeriale costituiscono una spesa inutile. Anzi un peso: viene in mente Gioachino Belli, «li libbri nun so’ robba da cristiani».