La sola via d’uscita per fermare le persecuzioni è la convivenza tra fedi diverse. Una Crociata potrebbe essere dannosa. Questa consapevolezza accomuna il capo della Chiesa cattolica e il patriarca Bartholomeos
Papa Francesco è in Turchia per celebrare insieme al Patriarca ecumenico Bartholomeos la festa di sant’Andrea. È una visita usuale dopo che le relazioni fra la Chiesa della nuova Roma (Costantinopoli) e della antica Roma sono diventate fraterne, con la levata delle scomuniche decretata alla fine del Vaticano II. Ma la Turchia è anche la memoria di un Islam conquistatore, quello che espugnò Costantinopoli nel 1453, poco dopo il fallito Concilio di Firenze, al termine del quale i monaci bizantini teorizzavano che fosse meglio essere soggetti al turbante del Sultano che alla tiara del Papa. In Turchia c’è la memoria della diplomazia cristiana saggia di monsignor Angelo Roncalli, mandato in quella terra laicizzata a viva forza da Atatürk, dove, anziché fare il «funerale del passato», aprì una via di amore e, durante la Shoah, seppe far evadere dalla grande prigione dell’Europa nazifascista migliaia di israeliti in fuga verso la Palestina.
Questo insieme di memorie può sembrare schiacciato oggi da una gigantesca, densa nube che oscura l’orizzonte del Levante turco ed europeo. È la nera nube della guerra di religione che avvolge tre decenni di conflitti nei quali sono morti milioni di credenti, in gran parte musulmani di diversa denominazione. È la nube dell’orrore dalla quale è uscita la forsennata prepotenza dei tagliagole del sedicente Stato islamico, che sterminano le vite di cui nessuno si cura e quelle dei cooperanti e dei giornalisti, la cui decapitazione colpisce l’immaginario con una ferocia ostentata. Assassini di inermi, stupratori di bambine e di donne. Piccola minoranza dentro quel mosaico che la nostra ignoranza chiama «l’Islam», alla quali errori politici e negligenze teologiche hanno permesso di radicarsi ideologicamente tra le nuove generazioni: ma capace di contagiare parti distanti del grande corpo dei musulmani e di accendere il demone della paura.
La nube scura, che si intravede da Ankara, avvolge anche il destino dei cristiani, vittime di questa lotta senza quartiere e senza pietà. Profughi che fuggono dalle città dove hanno abitato per secoli, lontani dalle cristianità latina e bizantina. Prede uccise oppure — come i vescovi di Aleppo o il gesuita Paolo Dall’Oglio — rapite per poter essere esibite, vive o morte, come argomento che corrobori le tesi di chi pensa che serve guerra per spegnere la guerra e violenza per troncare la violenza.
Francesco, il Papa che teorizza il contrario, non evade la domanda che pone la immensa scurissima nube. Non è un uomo ingenuo né lo sono i diplomatici — Parolin, Caccia, Filoni, Tauran — con i quali si confronta. Quando due anni fa fermò con un digiuno il bombardamento di Damasco che avrebbe aggiunto caos nel quadrante siriano, quando giusto dodici mesi or sono cercò di coinvolgere la Russia in una situazione che non potrà essere equilibrata dai soli interessi strategici dell’amministrazione americana, surclassò la superficialità di tanti.
Papa Francesco sa che c’è chi sfida su questo ambito la sua decisione di essere voce inerme degli inermi, musulmani e cristiani, soprattutto cristiani. Perché chi dice la più ovvia delle cose — cioè che non si possono ignorare le innumerevoli vittime cristiane della guerra, derubate di tutto — finisce fatalmente per chiedere che chi ha la forza militare di farlo liquidi gli assassini. Con una guerra, insomma: o se mai con una «crociatina». Chi non li ama sostiene che salverebbe i cristiani, chi li ama sa bene che un’altra guerra lascerebbe proprio ai fedeli un conto da
Fratellanza In un mondo dilaniato dal demone della divisione e dell’odio, l’unica soluzione possibile è la più alta: affermare l’unità del genere umano
pagare sempre più salato.
Il Papa va inerme a dire che quello che salverà i cristiani è solo la pace: la pace di tutti, dei musulmani e dei cristiani. Una pace che ha bisogno di politiche per far rientrare in scena attori esclusi (il decimo rapporto Nomisma su «Nomos e Chaos» lo spiega in dettaglio), e ha bisogno della fede dei credenti. Francesco ha detto che l’aggressore ha il diritto (proprio così: il diritto) di essere fermato prima che la sua bestialità idolatra lo perda: ma non ha fornito soluzioni facili dietro le quali una politica senza idee si possa nascondere. E ha chiamato a pregare per questo viaggio nel quale la comunione delle Chiese non costituisce un altro tema (non fu il dilemma del concilio di Firenze?), ma parte del problema.
Perché in un mondo dilaniato dal demone della divisione e dell’odio, l’unica soluzione possibile è la più alta: affermare l’unità del genere umano. Farlo richiede una autenticità profonda che Francesco ha, che ha anche Bartholomeos. Gli altri la facciano vedere, se sanno cos’è.