Casson: gli attacchi al Colle? Dna da destra legalitaria
ROMA — Il senatore Felice Casson (Pd) — ex pm a Venezia che ha indagato anche su Gladio e sulla strage di Peteano — riconosce anche il «Dna della destra legalitaria» nel fronte alimentato dal popolo della sinistra che, dopo aver fatto quadrato intorno alla procura di Palermo, non ha esitato ad attaccare con toni aspri pure il Quirinale: «In effetti, da Grillo in poi c’è questo tentativo di rendere tutti uguali, tutte le forze politiche e le istituzioni nel calderone dell’antipolitica. Ma che questa operazione la facciano leader come Di Pietro o giornalisti intelligenti come quelli che scrivono sul "Fatto" è preoccupante perché poi si finisce per dare spazio a istinti che sono culturalmente della destra... E c’è anche altro, perché così facendo c’è un ritorno all’anno zero del dibattito sulle riforme della giustizia: questo filone è portato a pensare che poi si risolva tutto con le manette...».
Le manette non dovrebbero essere un’eccezione per una certa cultura di sinistra tradizionalmente garantista? L’ultima spiaggia soprattutto se si tratta di custodia cautelare.
«Non possiamo certo pensare di risolvere tutto con le manette».
Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, è diventato una specie di icona del fronte giustizialista. Ma un suo articolo sull’«Unità» e una sua intervista sul «Corriere» hanno dato la misura della distanza esistente tra la procura di Palermo e il popolo degli attacchi al Quirinale a tutti i costi.
«Quando ho letto l’intervista sul "Corriere" ho pensato: "Era ora". Sì, era ora perché la situazione stava davvero sfuggendo di mano e Ingroia, probabilmente, si è reso conto dell’insostenibilità di certe posizioni. Il procuratore aggiunto di Palermo ha percepito il rischio di essere strumentalizzato è siccome è persona intelligente ha capito che come magistrato non può permetterselo».
I due filoni, però, sono rimasti saldati per molto tempo.
«Per questo mi sono stupito. Infatti si è rotto un fronte perché solo alcuni giorni fa Ingroia era arrivato al massimo dello scontro affermando che se lo Stato aveva paura della verità sulla trattativa con la mafia bastava dirlo e invocare il segreto di Stato. Una affermazione grave perché, come tutti sanno, quando si procede su fatti eversivi dell’ordinamento costituzionale non c’è segreto di Stato che tenga».