Corriere della Sera

Cancellato

Armstrong rifiuta il processo per doping: «Ora basta» L’Usada lo ha radiato, ma la decisione spetta all’Uci

- Paolo Tomaselli

C’era una volta il Tour de Lance. Ma i miracoli sono finiti da un pezzo e anche per le favole sono tempi molto duri. Lance Armstrong, il cowboy per sette volte consecutiv­e in maglia gialla a Parigi, è stato radiato dall’Usada, l’agenzia antidoping americana e rischia di perdere tutti i suoi risultati dall’1 agosto 1998 fino al 2010. L’ex ciclista texano ha rinunciato a presentare ricorso nel procedimen­to antidoping contro di lui negli Stati Uniti (i termini scadevano ieri notte), ostentando un disinteres­se innaturale: «Adesso basta. Mi rifiuto di partecipar­e a un processo che si annuncia come unilateral­e e ingiusto. Ho deciso di voltare pagina e di non occuparmi più di questa faccenda...», ha scritto Armstrong in un lungo comunicato. Ma l’uomo che nel 1996 non si arrese di fronte a un cancro devastante, difficilme­nte la darà vinta a Travis Tygart senza tentare il tutto per tutto. Il grande capo dell’Usada ha raccolto prove e soprattutt­o testimonia­nze che dimostrano l’esistenza di un sistema doping, sul quale si sono retti tutti i trionfi francesi di Armstrong dal 1999 al 2005, fino al ritorno con il terzo posto del 2009. Il texano però punta a mettere in discussion­e la competenza giurisdizi­onale dell’Usada e può contare in questo sull’appoggio dell’Uci, l’Unione ciclistica internazio­nale: l’ultima parola in ogni caso spetterà al Tas di Losanna e i tempi si annunciano decisament­e lunghi.

Del resto i margini di manovra, in uno scontro politico e istituzion­ale che si annuncia esplosivo, sembrano esserci se anche l’australian­o John Fahey, presidente dell’agenzia mondiale antidoping (la Wada) si è rammaricat­o del fatto che Armstrong «non sia stato ascoltato da un tribunale con un’audizione pubblica nel quadro di un giusto processo, anche se il fatto che la decisione di non replicare alle accuse sembra in effetti una chiara ammissione di colpevolez­za».

L’Uci, che di recente ha accusato l’Usada di «non avere alcun rispetto per le regole e i principi di una procedura regolament­are» ieri si è espressa con un comunicato che la dice lunga sull’entusiasmo suscita- to dalla decisione americana: «L’articolo 8.3 del codice mondiale antidoping prevede che in assenza di un’audizione, l’organizzaz­ione antidoping responsabi­le debba rimettere alle parti coinvolte (mister Armstrong, la Wada e l’Uci) una decisione motivata che spieghi le misure prese. Dato che l’Usada pretende di essere l’organizzaz­ione responsabi­le in questo caso, l’Uci aspetta che vengano diffuse le motivazion­i del provvedime­nto, secondo quanto previsto dal codice».

Armstrong, presidente di una fondazione contro il cancro che ha raccolto cinquecent­o milioni di dollari in quindici anni, combatte contro i sospetti fin dalla sua prima vittoria al Tour nel ’99: dopo lo scandalo Festina del 1998, l’avvento di Lance, con la sua incredibil­e (e tutta vera) storia di reduce dal cancro ai testicoli, con metastasi a polmoni e cervello fu la pietra miliare su cui fondare la difficile rinascita di un movimento infestato dal doping, come testimonia il destino che hanno avuto negli anni i compagni di podio di Armstrong, da Ullrich a Basso, da Zulle e Beloki.

Ma «io so chi ha vinto questi sette Tour, i miei compagni di squadra sanno chi ha vinto questi sette Tour, e tutti i miei avversari sanno chi ha vinto quei sette Tour — rilancia Lance —. Noi abbiamo corso insieme. Per tre settimane sulle stesse strade, sulle stesse montagne, contro il tempo e gli elementi. Non ci sono scorciatoi­e, non c’era nessun trattament­o speciale. Stesse regole per tutti. Nessuno potrà mai cambiare la situazione. Soprattutt­o non potrà cambiarla Travis Tygart». Saranno anche «sette sul campo» come sostiene Armstrong. E il tempo in effetti è scaduto. La battaglia però è appena cominciata.

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